Ancora una volta Donald Trump è solo contro tutti ed indietro nei sondaggi, mentre la politica americana è in fibrillazione su vari fronti: le proteste iconoclaste anti-razzismo dei Black Lives Matter, la bocciatura da parte della Corte Suprema della legislazione della Casa Bianca sull’immigrazione, i social network (Facebook e Twitter) che oscurano i post del Presidente, considerati come notizie ingannevoli e false.
In questa settimana sono riemersi i tre avversari storici di Trump: il deep state, lo Stato profondo delle agenzie burocratiche e del sistema giudiziario; i mainstream media, che spingono messaggi progressisti e riversano le consuete accuse di fomentare odio e razzismo sul Presidente; i colossi digitali dei social media, messi nel mirino dal tycoon newyorchese per il loro sempre più esorbitante potere sull’opinione pubblica.
Il primo avversario si è manifestato nelle inchieste sul collegamento tra Trump e la Russia degli scorsi anni, nelle sentenze della Corte Suprema avverse ai provvedimenti presidenziali, negli scontri tra le agenzie per la sicurezza nazionale e la politica estera della Casa Bianca, nelle tensioni sulla politica monetaria con la Fed, nei continui “tradimenti” con conseguenti licenziamenti dei consiglieri presidenziali e dei giudici. Questa settimana Geoffrey Berman, procuratore federale di Manhattan, ha rinunciato a dimettersi nonostante le pressioni di Trump, mentre John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale, ha accusato il Presidente di utilizzare la guerra commerciale con la Cina come mero strumento di propaganda interna. Trump è arrivato alla Casa Bianca da outsider, avversato non solo dai burocrati dell’era obamiana, ma da un consistente pezzo del proprio partito. Una situazione aggravata dal carattere fumantino del Presidente, dal sospetto diffuso verso l’establishment di Washington e da una gestione aggressiva delle nomine pubbliche, che ha reso complicati questi quattro anni di amministrazione e continui i voltafaccia e le tensioni tra il Presidente ed i suoi uomini di governo.
Il secondo avversario è la bolla progressista dei media mainstream. La stampa è stata oggetto di una contro-campagna da parte del Presidente sin dal 2016, che ne ha denunciato la lontananza dal Paese reale, i conflitti d’interesse, l’approccio spesso pedagogico e moralistico. Se per i grandi media Trump è un politico pericoloso ed un mentitore seriale, per il Presidente gli organi d’informazione sono costruttori professionali di falsità e partigianerie. Nel più populista ed efficace dei suoi argomenti, Trump considera i mainstream media come rappresentanti di un pensiero minoritario nella nazione, ma estremamente influente nelle dinamiche di potere. Un tutt’uno con il partito democratico, con il vecchio partito repubblicano dell’era Bush e con il capitalismo globalista. Una minoranza rumorosa ed organizzata che cerca con ogni mezzo di oscurare una maggioranza silenziosa. Contrasto che oggi continua con al centro le proteste del movimento Black Lives Matter. Trump ha difeso le statue degli antenati e la tradizione americana, rinfocolando la polemica con i suoi reali avversari politici ed intellettuali, grandi giornali ed emittenti televisive, ben più di quanto forse non lo sia lo stesso Partito democratico.
Il terzo scontro, invece, è senza dubbio quello più interessante per l’epoca in cui viviamo. Se Obama invitava a cena i Ceo della Silicon Valley ogni mese, Trump li detesta cordialmente. Al fondo dell’attrito c’è sì un’antipatia politica, l’eccessivo progressismo e globalismo dei campioni digitali, ma anche una contrapposizione più profonda. Nella sua vita pre-politica Trump è stato un imprenditore tradizionale, uomo di cantieri e costruzioni, di economia reale e materiale, vicino al potere ma anche ai lavoratori delle sue aziende. Niente a che vedere con gli informatici guru, i dottorati di pregio, gli uffici di design che informano i colossi del nuovo capitalismo digitale. Questi monopoli privati che estraggono valore dai dati personali e di fatto gestiscono attraverso le proprie piattaforme la discussione pubblica, stanno assumendo una connotazione sempre più politica e censoria, tra imposizione di standard etici e lotta alle fake news.
Come Theodore Roosevelt all’inizio del ventesimo secolo si scagliò contro i trust dell’industria pesante per spezzarne il monopolio, oggi Trump ha appena iniziato il proprio braccio di ferro con i social media. Un eventuale altro mandato, saprà dirci come si risolverà questo attrito attualissimo tra il populismo reazionario di Trump e questo nuovo capitalismo della sorveglianza.
Nel frattempo, la sfida con Biden si dipana anche intorno alla pandemia: da un lato l’America trumpiana, restia al lockdown e radunata senza mascherine; dall’altro quella democratica, pedagogica, prudente, distanziata e mascherata. Due anime che paiono sempre più inconciliabili e che rendono le presidenziali del 2020 una corsa particolarmente epocale.
