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Le fragili fondamenta del Sultano

Le fragili fondamenta del Sultano

In Turchia, dopo il terremoto scricchiola la credibilità di Recep Tayyip Erdogan, che ha basato il suo potere su due pilastri: islamizzazione ed edificazione forsennata. E anche se adesso «purga» chi si è arricchito tirando su case con materiali scadenti, lui per primo teme per le prossime elezioni.


Oltre 45 mila vittime tra Turchia e Siria, con palazzi che continuano a crollare senza un’apparente ragione, e la conta dei morti che non accenna ad arrestarsi. «I numeri potrebbero più che raddoppiare» ha già annunciato il sottosegretario generale per gli affari umanitari delle Nazioni unite, Martin Griffiths, in visita a Kahramanmaras, epicentro della prima scossa.

E pensare che poteva essere un anno d’oro per Recep Tayyip Erdogan: il presidente turco era già pronto a spendere cifre esagerate per festeggiare degnamente i cento anni dalla fondazione della moderna Turchia e i vent’anni dalla sua personale ascesa al potere, e fare quindi il pieno alle elezioni presidenziali di maggio (ora più che mai in dubbio, con un rinvio in autunno quasi scontato). Invece, il Sultano si ritrova a dover gestire la peggiore crisi del secolo per il suo Paese, con il timore che l’apocalisse scatenatasi nella regione al confine con la Siria trascini a fondo il suo inner circle insieme con lui, complice la perdurante crisi economica del Paese. Già, perché le autorità hanno iniziato con «arresti eccellenti» di non pochi costruttori i cui immobili si sono sbriciolati davanti agli occhi attoniti del popolo e dei soccorritori, non meno che del governo. A finire in manette sono stati, tra gli altri: Nazmi Tosun, supervisore alla costruzione e rappresentante tecnico del fatiscente Emre Apartmani a Gaziantep; Ibrahim Mustafa Uncuoglu e Mehmet Ertan Akay, ricercati per violazioni del codice edilizio e omicidio colposo; Hasan Alpargun, arrestato dopo un tentativo di fuga nella Repubblica turca di Cipro del Nord, in seguito al crollo di molti edifici costruiti dalla sua impresa ad Adana.

I media turchi hanno riferito anche dell’arresto di Mehmet Yasar Coskun, uno dei due fratelli Coskun, la cui società di famiglia aveva costruito il monumentale complesso nella capitale della provincia di Hatay, Antakya: la struttura, un condominio di lusso di 12 piani con 250 appartamenti, è crollata completamente durante il sisma. L’uomo è stato fermato mentre tentava una fuga in Montenegro. L’elenco non termina qui. Sono molte decine i costruttori sospettati di avere violato le normative edilizie del Paese: addirittura 130, secondo lo stesso ministro della Giustizia Bekir Bozdag, che ha aperto una serie d’inchieste per verificare la loro «presunta responsabilità nella costruzione di edifici che non hanno resistito ai terremoti». Tradotto: per utilizzo di materiali scadenti e violazione delle le normative edilizie. Si tratta di quegli stessi imprenditori che hanno largamente beneficiato della legge 36/06 del 1999 quando, a seguito del precedente terremoto, il governo turco aveva rivisto le norme che disciplinavano la costruzione degli edifici residenziali nel Paese.

«La Turchia è notoriamente soggetta a calamità naturali. Proprio per questo, dopo le scosse del 1999 l’ente governativo che sovrintende all’edilizia ha dato mano libera all’abbattimento e alla ricostruzione integrale di abitazioni di massa, secondo nuovi criteri» commenta Giovanna Loccatelli, autrice del saggio L’oro della Turchia (Rosenberg & Sellier, 2020). «Tale legge già allora provocò malcontento da parte delle opposizioni e più di un intellettuale denunciò questo sistema come un intento di Erdogan di portare la Turchia verso una gentrificazione forzata, rendendo le città più appetibili per turisti e investitori, ma dimenticando tutto il resto».

Al resto hanno pensato gli speculatori che, grazie al «liberi tutti» del governo, hanno dato vita a un sistema di abusi edilizi in barba alle nuove norme antisismiche, nonostante nel 2007 siano stati introdotti criteri ancora più stringenti che rafforzavano le misure antisismiche per le nuove costruzioni. In quest’arco di tempo, intanto, amici e sodali del presidente si sono arricchiti a dismisura, grazie a una monumentale campagna di riqualificazione infrastrutturale che ha ammodernato la nazione turca. Ponti immani, centrali nucleari, il nuovo Canale di Istanbul e tanto altro, compreso quello che solo a settembre era stato strombazzato come il «più grande progetto di edilizia sociale mai realizzato»: 500 mila alloggi, 50 mila posti di lavoro e oltre 250 mila appezzamenti di terreno residenziali.

«L’edilizia è stata ed è il settore principale attraverso cui Erdogan ha puntato per far ripartire l’economia. Dietro la sua politica ci sono sempre stati due valori: la merce e il profitto da un lato, e la reintroduzione dell’Islam dall’altro. Le opere di riqualificazione e i magnifici progetti infrastrutturali lo hanno condotto dov’è, ovviamente. Anche perché è innegabile che tali opere fossero necessarie, e pertanto sono state apprezzate perché hanno effettivamente modernizzato la Turchia. Cosa che molti desideravano. “Io vi ho dato il futuro e la modernità. Senza di me siete un Paese arretrato”: questo il messaggio che la sua propaganda ha sempre portato avanti» conclude Loccatelli.

E sinora aveva funzionato sin troppo bene. Ma adesso, di fronte all’evidenza e alla portata del disastro, Recep Tayyip Erdogan mastica amaro e ammette carenze e abusi. Anche perché non può certo bastare al popolo turco il suo appellarsi alla mala sorte, nella speranza di ottenere clemenza: «Cose del genere sono sempre accadute. Fa parte del piano del destino» aveva commentato a caldo. Sarà forse per questi timori che il presidente turco è tornato a promettere la costruzione immediata di non meno di 30 mila nuove abitazioni, che sostituiranno quelle da abbattere o già abbattute. Ma basterà questo messaggio per rassicurare l’elettorato?

Oggi sono almeno un milione le persone che hanno perso la loro casa secondo l’Oms, e altri 26 milioni sono coinvolti in vario modo dal sisma; ovvero circa un elettore su tre. Anche nella gestione del post-sisma vi sono state inefficienze impreviste. La macchina dei soccorsi è intervenuta in appena 10 delle 81 province della Turchia, con gravi difficoltà e ritardi diffusi. Anche qui il destino avverso? O c’è piuttosto la mano dell’uomo? Come ha spiegato alla Bbc il capo di Akut, Nasuh Mahruki – una ong turca che si occupa di search & rescue per il governo – la politica accentratrice di Erdogan è co-imputata: «In tutto il mondo, le organizzazioni più capaci e logisticamente potenti sono le forze armate. Hanno enormi mezzi nelle loro mani, quindi devi sfruttarli appieno». Tutto questo però non è avvenuto, perché dopo l’ultimo grande terremoto dell’agosto 1999 (in quel caso, ci furono circa 20 mila morti) i militari che all’epoca guidarono le operazioni sono stati depotenziati dal presidente, in ragione di sospetti o favoritismi verso altre realtà più in linea con il suo pensiero politico. E così, il secondo più numeroso esercito della Nato, con i suoi 350 mila effettivi, ha dovuto passare le competenze per i disastri civili a gruppi non governativi. Come Akut appunto, che ha a sua disposizione appena 3 mila volontari e uno staff di altre 10 mila persone che lavorano per l’autorità turca preposta.

È evidente che una simile catastrofe necessitava di uno sforzo ben maggiore, che solo una catena di comando esperta come quella delle forze armate poteva gestire, dispiegando tutti gli uomini necessari: «Questo ha creato un ritardo nell’inizio delle operazioni di salvataggio e ricerca» ammette oggi il capo di Akut, Nasuh Mahruki. I ritardi e la mancanza di generi di prima necessità, inoltre, hanno fatto esplodere la rabbia, e non sono mancati i saccheggi: è successo a Iskenderun e ad Antiochia. Forse, con i militari schierati sul campo tutto ciò non sarebbe avvenuto. Da ultimo, a impensierire il governo è anche l’esplosione di un nuovo scandalo, che probabilmente sarebbe rimasto sottotraccia se non si fosse abbattuta questa sciagura nel Paese: nessuno sa dove siano finiti i 3 miliardi di euro derivanti dalle «tasse di solidarietà antisismiche create dopo il terremoto del 1999». È con queste premesse che Recep Tayyip Erdogan si presenterà davanti al suo popolo, perché lo giudichi nelle urne nei prossimi mesi. E se anche è vero che nei momenti di crisi – dal terrorismo alla guerra, alle calamità naturali – la popolazione tende a stringersi attorno al leader (e in questo, la leadership di Erdogan è indiscutibile), è pur vero che il Sultano sarà il primo a pagare per questo disastro che, come sta emergendo, in buone parte si poteva evitare.

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