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Sfratto allo Zio Sam

Sfratto allo Zio Sam

Nel «Monopoli» planetario, di cui l’invasione russa dell’Ucraina è solo un tiro di dadi, ci si affronta per i prossimi equilibri globali. Protagonisti assoluti Stati Uniti e Cina. Con un vantaggio competitivo per il Dragone.


Altro che Grande reset – il progetto un po’ onirico del principe Carlo e dell’Fmi per un’economia dal volto verde – qui siamo a un concretissimo e cruento grande Monopoli. Il plateau è il mondo, i dadi sono i missili che stanno martoriando l’Ucraina, i giocatori fondamentalmente due: Joe Biden che vuole incassare senza «passare dal via» del peso delle sanzioni; Xi Jinping che sta ammassando case e beni in Parco della Vittoria (il nome non è casuale). Chi langue e rischia di rimetterci le penne è l’Europa, finita in Vicolo Stretto. Al grande Monopoli la posta è lo sfratto a zio Sam come padrone del globo.

Una prima avvisaglia della ridefinizione degli equilibri globali si è avuta alla sessione del G20 il 20 aprile scorso. Quando ha preso la parola Anton Siluanov, ministro delle Finanze di Mosca, Janet Yellen, segretario del Tesoro americano e Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, se ne sono andati. L’Italia è rimasta ad ascoltare il ministro russo salvo poi accodarsi a ogni decisione atlantista e scavalcare «da sinistra» la Germania di Olaf Scholz che non ha nessuna intenzione di morire per Kiev; si capisce che Biden fa la guerra a Vladimir Putin per interposta Ucraina. Ma il fronte occidentale al G20 si è spaccato e il resto della compagnia ha voltato le spalle alla coppia di presunti assi Usa-Ue.

L’obiettivo degli Stati Uniti non è neppure difendere Kiev quanto – esplicita dichiarazione del segretario alla Difesa Lloyd Austin – indebolire Putin; e anche Volodymyr Zelensky riafferma apertamente che il suo primo (e forse unico) alleato è lo zio Sam. Quando ha incontrato il segretario di Stato Antony Blinken, gli ha ripetuto: non venite a mani vuote. Il cadeau? Missili sempre più micidiali. È la conferma che mentre l’Europa s’illude di esercitare un’attrazione su Kiev, l’Ucraina si conferma sempre più colonia americana.

Lo è di fatto dal 2014, quando Barack Obama, con l’aiuto di George Soros, insediò il governo di Oleksandr Turchynov di cui Zelensky è una prosecuzione. Il Paese per Washington è interessante per troppi motivi: ha moltissimi metalli rari; ha il neon che consente agli Usa un buon impatto nella guerra dei microchip con la Cina; ha energia, grano e girasole; ha il vantaggio di essere confinante con la Russia e, se la strategia americana di lungo periodo è fiaccare del tutto Mosca e controllare da vicino l’Europa senza intaccare la solidarietà Nato, risulta l’avamposto perfetto.

Oltretutto, prima o poi ci sarà la ricostruzione e un «piano Marshall» a vantaggio di Zelensky non ci vorrà molto a vararlo. Magari imputando il conto un po’ anche agli amici europei. Washington ha un’altra urgenza: impedire che si saldi il fronte russo-cinese e disporre nell’area di un serbatoio di materie prime capace di riequilibrare in parte il vantaggio che Pechino acquisisce calamitando definitivamente Mosca nella propria orbita. Si capisce perché perdere i porti del mar Nero per Zelensky e il suo più potente alleato sia una eventualità nefasta. Washington dimentica però che contemporaneamente all’ingresso della Cina nel Wto, l’Organizzazione mondiale per il commercio, fu firmato nel 2001 proprio da Vladimir Putin il «Trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione sino-russo» che l’allora premier cinese Jiang Zemin definì «la via per il nuovo ordine mondiale». Quell’intesa ha anche una valenza militare perché è «una pietra miliare della stabilità strategica e una base per la riduzione delle armi offensive».

Rispetto a Kiev c’è tutto un mondo che non la pensa né come Biden né come l’Europa, al netto di qualche distinguo. Anche in patria il presidente americano inizia avere qualche problema rispetto alla guerra. A crearglielo sono i petrolieri. Quei produttori di gas che lo estraggono triturando le rocce denunciano costi elevati: si stanno accorgendo che la quota di esportazione (siamo oltre il 20 per cento) risulta troppo alta e sta «deregionalizzando» il mercato del metano. Sanno bene che questa risorsa ha mercato «a portata di tubo» e non si fidano che la domanda europea sarà di lungo periodo, tale da giustificare gli investimenti necessari per ricavare e spedire gas liquefatto.

È vero che Biden ha imposto agli europei di comprare 50 miliardi di metri cubi fino al 2030, ma per chi investe in questo settore è un lasso di tempo breve. In più, in America le riserve di gas sono basse (sotto il 16 per cento) e chi estrae shale gas ha interesse a soddisfare prima il mercato interno, dove peraltro il prezzo è passato da 3 a 9 dollari per effetti del trascinamento dei prezzi europei. Questo contribuisce a generare inflazione e ciò spinge Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, a stringere sui tassi. Le imprese Usa non amano il denaro troppo caro. Al punto che Elizabeth Warren, potentissima deputata democratica e rappresentante degli interessi dei petrolieri, già a febbraio chiedeva di limitare l’export di gas liquefatto per calmierare i prezzi domestici. E qui c’è un imprevisto nel grande Monopoli: se Biden va incontro a una disfatta nelle prossimi elezioni di Midterm, anche il mondo che non sta con lui va a riscuotere senza passare dal via. C’è chi dice che la Casa Bianca abbia tutto l’interesse a prolungare la guerra in Ucraina proprio per far votare gli americani con il rumore delle armi in sottofondo.

Ha forse ragione il Quotidiano del Popolo cinese quando scrive: «Gli Stati Uniti stanno usando l’Ucraina come una pedina sulla loro scacchiera geopolitica, in modo da contenere la Russia, soffocare l’indipendenza strategica dell’Ue e sostenere la sua egemonia in declino in Europa». All’Onu si è capito che il cosiddetto Occidente democratico ed evoluto è in minoranza e non sta simpatico all’80 per cento degli altri abitanti del pianeta. Soprattutto a chi, in seguito al conflitto, rischia di morire letteralmente di fame. Il trionfalismo dell’Occidente afferma che contro l’invasione dell’Ucraina hanno votato a favore in 141, ma ci sono 5 contrari che fanno relativamente poco testo e 35 astenuti: tutta l’Asia e mezza Africa.

Per cacciare la Russia dal Consiglio dei diritti umani le cose per l’Occidente sono andate ancora peggio: 93 sì, 58 astenuti e 24 contrari. È vero che a favore si è espresso il 51 per cento del Pil mondiale, ma contro si è schierato appunto l’80 per cento della popolazione della Terra. E ci sono tutti i Paese Brics: Brasile, Russia Indonesia, Cina e Sud Africa. Leggendo meglio, si nota che contro l’Occidente c’è l’80 per cento di produzione globale di zucchero (Brasile e India), il 70 per cento di oli vegetali, il 90 per cento di caffé e cacao, l’80 di terre rare, il 70 delle risorse energetiche, il 68 di produzione di acciaio. Questo è il nuovo Monopoli.

La prova? La processione di questi ultimi giorni per incontrare il premier indiano Narendra Modi. C’è andato Boris Johnson e Modi gli ha fatto presente che gli inglesi in India c’erano da colonialisti. La baronessa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è arrivata per parlare di clima e ha ricordato che la guerra ucraina avrà conseguenze anche per il quadrante Indo-pacifico. Il premier del Subcontinente ha risposto con gentilezza; intanto, ha firmato una super fornitura di gas e petrolio con la Russia, pagamento in rubli, e accetta di commerciare in yuan, la divisa cinese. L’India si avvia a diventare la quarta economia del pianeta. L’Indonesia, constatato che il mondo ha bisogno di olio, ha bloccato l’esportazione di quello di palma. Manca già quello di girasole dell’Ucraina e ora l’Occidente non sa cosa utilizzare per friggere. Ai cinesi, gli indonesiani vendono invece tutto l’olio che serve.

Ancora: nessuno si preoccupa di Jair Bolsonaro, il presidente brasiliano trattato come un appestato durante le grida manzoniane europee sul Covid, che ha assicurato massimo appoggio alla Russia in tutti gli organismi internazionali. I due ministri economici Anton Siluanov e Paulo Guedes si sono scambiati lettere d’intenti su questo tema. Ormai la Cina è il primo partner commerciale del subcontinente latinoamericano: dal 2004 al 2019 l’export del Sudamerica verso Pechino è passato da 12 a 116 miliardi di dollari e, parallelamente, l’export cinese è salito da 22 a 171 miliardi.

Cuba in questa crisi ha ritrovato l’antica amicizia con le due superpotenze comuniste: e per gli americani, se l’Avana si «risovietizza» non è un buon segnale. C’è poi il grande capitolo Africa. Là dove noi andiamo mendicando gas – Algeria, Repubblica del Congo, Angola – sono già arrivati i russi portando grano. Là dove mancherà il grano con possibili tensioni sociali fortissime e il rischio di uno tsunami migratorio verso l’Europa (problema che Biden non deve affrontare) la Cina è pronta a intervenire con gli aiuti. Pechino ha in mano il 60 per cento del grano che la Russia esporta ed è il primo partner economico dell’Africa.

Anche qui bastano pochi numeri. Il commercio bilaterale ha raggiunto i 254,3 miliardi di dollari, in aumento del 35,3 per cento su base annua. L’Africa ha esportato 105,9 miliardi di dollari di merci in Cina, un valore in crescita del 43,7 3 per cento, anno su anno. Chi continua a pensare che il Dragone voglia la stabilità perché non può rinunciare al mercato europeo e americano forse difetta di ottimismo. Vuole la stabilità, ma non è detto che sia quella che intende l’Occidente. Ci sono poi le aree di frizione. In Afghanistan Sergei Lavrov e Wang Yi, i due responsabili degli Esteri, hanno deciso di cooperare per una stabilizzazione; in Arabia Saudita l’avvicinamento di Biden all’Iran per trovare petrolio ha suscitato le ire di Riad e il Wall Street Journal ha sentenziato che le relazioni bilaterali sono «al punto di rottura». L’icastica risposta di Mohammad Bin Salman, è stata emettere futures in «petrolyuan» cercando di minare la stabilità del dollaro come moneta di riferimento in campo energetico.

Ma questa «crisi» sta deteriorando anche i rapporti con Israele. Michael Herzog, ambasciatore di Tel Aviv a Washington, ha rilasciato interviste preoccupate auspicando che i rapporti con Riad migliorino; intanto vi è stato un vistoso riavvicinamento di Naftali Bennet, premier ro israeliano che si candida a mediatore nella guerra ucraina, verso Mosca in funzione anti-iraniana e anti-siriana. Non si può poi trascurare la rafforzata posizione di Recepp Tayyip Erdogan, che pure è alle prese con una pesantissima crisi interna e , da membro della Nato, nel Mediterraneo bada soprattutto ai fatti propri.

Infine c’è la cruciale «sfida delle valute», con la Cina determinata ad abbattere l’egemonia del dollaro e che, nel frattempo, sostiene il rublo. L’obiettivo è forse meno lontano del previsto, giacché ormai gli scambi commerciali cinesi viaggiano a quota 5 mila miliardi di dollari; se si convertono in yuan per l’Occidente, a partire dall’euro, si prospettano guai seri.

Sì, basta un tiro di dadi sfortunato per cambiare il corso del grande Monopoli.

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