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In Brasile la giustizia vuole il controllo sulla politica

In Brasile la giustizia vuole il controllo sulla politica

A un passo dalle infiammate e incerte elezioni del nuovo presidente, nel Paese verde-oro pesano le interferenze per nulla democratiche di un potente giudice, che incarcera, censura, insabbia. A favore di Lula e del suo partito.


«Sei un piccolo dittatore». È questa la frase più a effetto pronunciata da Luiz Inácio Lula da Silva contro Jair Bolsonaro durante il loro primo dibattito televisivo. Per poi rincarare la dose: «Sei il re delle fake news e della stupidità». A pochi giorni dal ballottaggio delle elezioni presidenziali del 30 ottobre, giorno che stabilirà il futuro politico di una delle più grandi democrazie del mondo, il Brasile, il risultato appare incerto come quello di una finale dei Mondiali di calcio. Nonostante gran parte dei sondaggi diano ancora Lula in lievissimo vantaggio ma con il presidente uscente Bolsonaro in recupero, tra i due al primo turno la differenza è stata davvero sottile: circa 6 milioni di voti in un Paese di 220 milioni di abitanti.

A scontrarsi non sono solo due politici, ma due visioni opposte del «gigante» sudamericano, soprattutto dal punto di vista economico. Quella progressista di Lula, che continua a voler togliere ai ricchi per dare ai poveri, e quella neo-liberista di Bolsonaro che, in carica dal gennaio 2019, è riuscito a far ripartire il Brasile in modo sorprendente dopo il crollo dovuto alla pandemia. Il Fondo monetario internazionale ha infatti alzato le previsioni di crescita del Paese per il 2022 al 2,8 per cento, la disoccupazione per la prima volta in sette anni è scesa sotto il 9 per cento e l’inflazione prevista al 5,5 per cento, meno dell’Unione europea e degli Usa.

Proprio l’economia è stato il grande tema di un’agguerritissima campagna elettorale, dove non sono mancate appunto fake news e momenti di puro trash. Mentre Bolsonaro ha già dichiarato che se eletto confermerà il suo attuale ministro dell’economia Paulo Guedes, economista allievo della scuola monetarista di Chicago, ha colpito il silenzio di Lula sulle sue direttrici economiche. Benché continui a ripetere come un mantra che vuole riportare sulle tavole dei brasiliani «picanha e birra» e salvare i 33 milioni di abitanti in grave insicurezza alimentare, si è rifiutato di rivelare chi sarà il ministro dell’Economia in un eventuale suo governo, né che politiche metterà in campo. «Come in una partita di calcio non si rivela la formazione, solo dopo aver vinto lo dirò» ha dichiarato alla stampa.

Altro tema di impatto è quello della sicurezza. Se a Bolsonaro viene rimproverato di aver permesso a 700 mila cittadini di comprare legalmente un’arma, a Lula si rinfacciano (oltre all’enorme scandalo della corruzione sua e del suo Partito dei lavoratori, Pt, svelato dalla Mani pulite brasiliana, la Lava Jato) le simpatie che il più pericoloso gruppo criminale brasiliano, il Primo comando della Capitale, ha per lui. Il leader del gruppo Marcola, rinchiuso in un supercarcere, è stato infatti intercettato dalla polizia mentre confidava a un altro detenuto che «per noi Bolsonaro è peggio. Lula è un ladro ma non si possono paragonare l’uno con l’altro». Purtroppo lo scoop rivelato dal sito O Antagonista è durato il tempo di poche ore perché, ed è questa l’altra preoccupante novità delle elezioni, è intervenuta la censura. La stessa che ha fatto rimuovere le parole dell’ex deputata Mara Gabrilli alla radio brasiliana Jovem Pan. Secondo lei Lula aveva pagato 12 milioni di reais, circa 2,5 milioni di euro, a un imprenditore per non venire accusato di essere dietro alla morte di Celso Daniel, il sindaco del Pt di Santo André, misteriosamente assassinato nel 2002.

Dietro questa operazione di censura c’è il terzo personaggio più famoso del Brasile dopo Lula e Bolsonaro: il giudice Alexandre de Moraes, campione di quella che si può definire «la variante brasiliana», ovvero il controllo smisurato della Giustizia sulla politica. Un’aberrazione certificata dallo stesso New York Times, che in recente articolo ha descritto de Moraes come «una minaccia per la democrazia brasiliana». Il problema è che l’uomo a capo del Supremo tribunale elettorale (Tse), nonché membro della Corte suprema verde-oro (Stf), davvero rischia di destabilizzare la democrazia.

Benché Bolsonaro sia accusato di autoritarismo, ha rispettato le decisioni del giudice e le leggi approvate dal Congresso, non ha arrestato nessuno, né censurato la stampa o bloccato i social network o congelato i conti bancari di nessuno. Tutte azioni che, invece, il «giudice calvo», come viene chiamato de Moraes, ha fatto. «Chi, allora, minaccia la democrazia?» si chiede il quotidiano statunitense. Per l’analista e scrittore J. R. Guzzo, «la più alta corte di giustizia brasiliana, come noterà un giorno la stampa internazionale, in realtà ha creato una dittatura senza precedenti nel Paese: la dittatura della magistratura, basata sulla sottomissione degli altri due poteri e sull’eliminazione dei diritti individuali».

L’articolo del NYT si riferiva a un mandato di perquisizione e congelamento dei beni richiesto lo scorso luglio da de Moraes per un gruppo di importanti imprenditori brasiliani che su una chat di WhatsApp commentavano l’imminente campagna elettorale con meme, post e espressioni colorite come «meglio un golpe che il ritorno del Pt». De Moraes ha anche fatto arrestare cinque persone per presunti post pubblicati sui social che, a suo dire, attaccavano le istituzioni. Ma il caso più eclatante è quello del deputato del Partito laburista brasiliano (Plb) Daniel Silveira, condannato a nove anni dall’Stf per un livestream online in cui attaccava lo stesso de Moraes. Silveira è stato poi amnistiato da Bolsonaro.

De Moraes ha persino censurato un articolo del giornale Gazeta do Povo che raccontava le relazioni tra il rivale di Bolsonaro e il dittatore del Nicaragua Daniel Ortega. Per la cronaca, Ortega si è congratulato con lui per la vittoria al primo turno. E al suo «Siamo con te», Lula ha replicato sul quotidiano spagnolo El País, paragonando il guerrigliero-presidente niente meno che ad Angela Merkel, si è detto orgoglioso dell’amicizia con il sandinista e ha affermato, nel primo dibattito tv contro Bolsonaro, che «se il popolo del Nicaragua vuole mandare a casa Ortega, lo facesse col voto».

A metà ottobre, inoltre, il giudice de Moraes ha vietato che la Polizia federale proseguisse l’investigazione aperta sugli istituti demoscopici, sospettati di agire «come un cartello per manipolare il mercato e le elezioni». Dal 2019, infine, la Corte Suprema si è conferita nuovi poteri che le permettono di agire, a un tempo, come polizia giudiziaria, procura e tribunale. Anche per questo motivo la società civile comincia a chiedersi se non saranno proprio il «giudice calvo» e i suoi agguerriti colleghi a tracciare il futuro del Brasile nei prossimi quattro anni.

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