Cent’anni dopo Livorno quando nacque il Partito comunista, settant’anni dopo Palazzo Barberini quando Saragat fondò il Partito socialdemocratico, c’è una parola che sembra essere tornata di moda: scissione. Una parola- tabù che nessuno della vecchia guardia del Pd ha finora osato pronunciare a voce alta e che persino Pierluigi Bersani si è affrettato a smentire nel giorno in cui ha annunciato, insieme a una ventina di parlamentari di Area Riformista, il suo no alla legge elettorale di Matteo Renzi.
Eppure, come sanno tutti coloro che hanno ormai messo piede in qualche circolo o associazione legata a quello che un tempo i militanti chiamavano il «gran partito», la scissione c’è già stata. C’è già stata perché quando l’ex segretario arriva a votare no al progetto-chiave su cui si gioca la credibilità il nuovo segretario-premier, la scissione si è già consumata.
C’è già stata perché sono ormai decine, centinaia, migliaia, decine di migliaia, come segnalano i dati sul tesseramento, i militanti del Pd e dell’Arci che se ne sono andati via in questi mesi, alla spicciolata, spesso senza sbattere la porta e in silenzio come insegnava la vecchia liturgia comunista, solo in attesa di una nuova casa politica.
C’è già stata perché, quando Pierluigi Bersani arriva a dire, come ha fatto in un’intervista odierna a La Stampa, che «questa non è più la ditta che ho contribuito a fondare» e che «questo è ormai un altro partito», la scissione non proclamata ufficialmente si è già consumata, e se non è ancora stata consumata è solo perché la vecchia guardia, in nome di una fedeltà alla ditta-che-non-c’è più, si illude ancora di poter riprendersi in un futuro sempre più lontano il partito conquistato dalle truppe renziane.
A pensarci bene, è difficile anche solo immaginare due uomini, politicamente e culturalmente, più lontani di Bersani e Renzi. Il primo è un passista di vecchia scuola, scuola emiliana, tutto chiesa-partito, pragmatismo e flessibilità, ma anche radici profonde nella storia del comunismo italiano. Il secondo è un velocista, smart, ragiona come twitta, in 140 caratteri, postideologico e a-ideologico, capace di cavalcare l’onda, di fiutare i cambiamenti dell’opinione pubblica, inseguendoli, e, spesso, facendosene travolgere, in assenza di una scuola-partito, di un’idea-forza che resista ai venti capricciosi dei sondaggi. È paradossalmente la forza di Renzi il suo vero punto debole.
C’è una vecchia battuta che circola nelle sezioni del Pd che i vecchi militanti attribuiscono a quella vecchia volpe di Massimo D’Alema, il vecchio premier che solo l’impazzita geografia politica italiana ha collocato oggi tra i leader della sinistra del Pd. «Matteo Renzi? È del Pd perché è nato a Firenze. Fosse nato a Milano si sarebbe iscritto al PdL». Una battuta, vera, presunta, indubbiamente realistica, che fotografa esattamente la condizione in cui si trovano i vecchi leader e militanti del Pd: separati in casa. Si dorme in letti separati. La separazione, e poi il divorzio, sono già nelle cose. Bisogna solo trovare un buon avvocato e il momento più propizio, come sanno tutte le coppie in crisi.