A volte ritornano. Si tratta dei partiti bocciati alle urne che entrano ancora in Parlamento in virtù delle adesioni di transfughi da altre compagini. Il caso più eclatante è quello di Italia dei valori. Ma anche i Verdi e Azione di Calenda ringraziano i giri di casacca.
Dai pasdaran dell’Italia dei valori, portabandiera del vecchio dipietrismo, ai propugnatori della rivoluzione anticapitalista di Potere al popolo, senza dimenticare il caso di Antonio Ingroia, né tantomeno quello dei Verdi. Per la serie: a volte ritornano… anche quando sembravano spariti. Ma di cosa si parla? Dei bocciati a ripetizione, i partiti respinti dalle urne e spariti dai radar per mesi, anche anni. Ma che vengono tirati fuori dal cilindro all’improvviso.
Il modo è semplice: basta stipulare degli accordi tra segretari di partito e parlamentari, nella maggior parte dei casi fuoriusciti dai gruppi di appartenenza (in questo senso il Movimento 5 Stelle è un serbatoio inesauribile) alla ricerca di un tetto politico. Insomma, un simbolo di partito può fermarsi a percentuali da prefisso telefonico, ma è una ricca dote nei movimenti di Palazzo. La strategia serve a garantirsi una prospettiva, almeno nelle intenzioni, e soprattutto la sopravvivenza di partiti che non riescono a intercettare il consenso popolare necessario all’elezione in Parlamento. Sono i «ripescati dei simboli», quei soggetti che portano in dote una lista presentata alle ultime elezioni politiche. Un giochetto prezioso per avere una porzione di visibilità.
Si diceva dell’Italia dei valori (Idv), il partito fondato nel Duemila da Antonio Di Pietro, sull’onda del furore giustizialista, che un tempo veleggiava intorno al 4%. L’ex pm, dopo aver dismesso la toga, scelse di entrare in politica con il simbolo del gabbiano che gli ha consentito di diventare ministro nel secondo governo Prodi. Oggi l’Idv non riesce a eleggere un rappresentante in Parlamento dalle elezioni del 2008, epoca in cui i nomi di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera, e Felice Belisario, presidente dei senatori, erano familiari all’opinione pubblica.
Così, in attesa di capire cose riserva il futuro, sono rientrati al Senato, grazie a Elio Lannutti, eletto nelle liste del Movimento 5 Stelle. Il senatore, spesso finito in prima pagina per delle gaffe di comunicazione, ha indossato i panni del regista, avviando il dialogo con l’attuale segretario dell’Idv, Ignazio Messina, sostituto di Di Pietro dopo il disastro elettorale del 2013. Per Lannutti si tratta, in realtà, di un ritorno a casa: nel 2008 mise piede a Palazzo Madama proprio con l’Idv, seppure con l’etichetta di indipendente. Alla Camera, invece, la portacolori è Piera Aiello, anche lei – strano ma vero – ex grillina, che ha abbandonato il Centro democratico di Bruno Tabacci folgorata sulla strada degli eredi del dipietrismo. Il progetto ha fatto riapparire dall’oblio, almeno per qualche giorno, anche Elisabetta Trenta, ministra della Difesa del primo Conte.
E tra i compagni di banco al Senato c’è un’ulteriore personalità che evoca antiche pulsioni giustizialiste: Antonio Ingroia. L’ex procuratore di Palermo era stato avvistato mediaticamente l’ultima volta, quando aveva lanciato la Mossa del Cavallo, insieme a Giulietto Chiesa, che venne presentata come «un’alleanza popolare ai cittadini, contro i partiti». L’ambizione era di rivolgersi «al 60% di elettori che hanno già deciso oggi di non votare alle prossime elezioni». Evidentemente nessuno ha avvisato quegli elettori, che hanno ignorato la Mossa dell’ex magistrato. Così Ingroia è stato ripescato al Senato dalla pattuglia di 5 Stelle fuoriusciti, fondatori dell’ambizioso progetto «L’Alternativa c’è».
Nell’iniziativa hanno appunto incluso Ingroia, che da parte sua ha messo a disposizione il quasi ignoto simbolo di «Popolo per la costituzione», lista presentata alle elezioni del 2018 e che non ha raggiunto nemmeno lo 0,1%, raggranellando in totale meno di diecimila voti. Eppure, attraverso i bizantinismi del regolamento di Palazzo Madama, il simbolo è stato fondamentale per formare una componente autonoma, che ora conta su quattro senatori. I destini politici di Ingroia e Di Pietro, seppure in forme diverse, tornano a incrociarsi: nel 2013 erano a braccetto nella fallimentare alleanza «Rivoluzione civile», che non andò oltre il 2,25%, nonostante la presenza di tanti altri partiti.
All’interno della coalizione Rivoluzione civile figuravano anche i Verdi, altro partito tornato in Parlamento, dopo ripetute sconfitte, solo grazie all’intesa con una deputata, in questo caso Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, eletta con Liberi e uguali, e fondatrice della componente FacciamoEco, insieme all’ex ministro, Lorenzo Fioramonti. L’accordo ha riportato il Sole che ride di Angelo Bonelli a Montecitorio. Ma il matrimonio è ai titoli di coda: con un atto di imperio, i vertici dei Verdi hanno annunciato di ritirare il simbolo a Fioramonti&co., accusandoli di supportare il governo Draghi. Una situazione paradossale, perché in quelle ore Muroni annunciava il «no» alla fiducia sul decreto Semplificazioni. Un ritorno-lampo con tanto di effetto dissoluzione.
Ma c’è anche chi non ha mai messo piede in Parlamento, e lo ha scoperto con nuove modalità, ossia reclutando parlamentari in cerca d’autore. Per informazioni basta rivolgersi a Potere al popolo (Pap), soggetto che propugna la rivoluzione anticapitalista. Le posizioni dure e pure ha portato l’1% dei voti nel 2018, un esito che venne accolto con tappi di spumante che volavano nella sede del movimento. Nel 2018 la guida era affidata a Viola Carofalo, diventata per qualche mese un volto noto nei talk show, e a Giorgio Cremaschi, ex leader sindacale Fiom, da sempre nell’orbita della sinistra radicale. Da maggio la leadership è passata nelle mani di Giuliano Granato e Marta Collot, assurta a erede di Carofalo anche nel presenzialismo mediatico. La svolta nelle istituzioni è arrivata di recente, a fine luglio: il senatore Matteo Mantero, uno dei tanti espulsi dai Cinque stelle, ha annunciato l’adesione a Pap.
L’entratura al Palazzo è risultata utile anche a Carlo Calenda, padre del movimento Azione. Certo, a differenza degli altri non ha partecipato alle Politiche: il partito non era stato nemmeno fondato nel 2018, all’epoca Calenda amoreggiava con il Partito democratico. Azione, nell’attesa di trovare uno sbocco elettorale, può contare al Senato su Matteo Richetti, a lungo considerato il numero due nel Pd di Matteo Renzi. Ma non è il solo. Alla Camera sono stati reclutati anche l’ex ministro degli Affari regionali, Enrico Costa, uomo immagine dei moderati sulla riforma della Giustizia, e un altro ex Cinque stelle, Nunzio Angiola. E nelle prossime settimane, complice il voto alle Comunali a Roma, si potrebbero ingrossare le fila. Ammesso che non aumenti la concorrenza dei partiti ripescati.