Rifiuto del tampone, ferimenti reciproci per procurarsi delle fratture. Gli stranieri usano ogni mezzo per non tornare nei Paesi d’origine. E la burocrazia dà loro una mano. Così, nonostante le dichiarazioni del governo, i voli per rimandare a casa chi non ha permesso di soggiorno si sono dimezzati rispetto a due anni fa. A decollare, infatti, sono soltanto i costi per queste operazioni.
Un’ottima astuzia messa a punto nel Centro per il rimpatrio di corso Brunelleschi a Torino sta facendo il giro dei Cpr d’Italia: gli stranieri trattenuti riescono a dilatare i tempi per l’espulsione con un semplice ma efficace escamotage: rifiutando il tampone non viene permesso loro di salire a bordo di un aereo. E il risultato è garantito. Ma non è l’unico modo per restare in Italia. Il Garante dei detenuti ha denunciato più volte che gli stranieri trattenuti spesso si feriscono tra di loro, provocandosi fratture, proprio per evitare il rimpatrio. E nonostante gli accordi fortemente propagandati, i voli per la Tunisia sono rimasti a terra. Quelli per l’Algeria sono addirittura non pervenuti.
Il meccanismo dei rimpatri si conferma la spina nel fianco del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Dopo le visite a Tunisi e ad Algeri, il megafono governativo aveva annunciato il raddoppio dei voli per rispedire a casa gli immigrati irregolari. Risultato: i dati sono dimezzati. Nel 2018 sono stati 7.015, nel 2019 7.350 e nel 2020 solo 3.666. Di questi si è reso necessario scortarne fino ai rispettivi Paesi di destinazione 3.409 (92,99 per cento), con spese impressionanti sia per la logistica che per il personale impiegato (1.415 sono partiti con voli di linea o navi e 1.994 con voli charter).
Anche perché i costi medi per il rimpatrio si sono moltiplicati, passando dai 1.398 euro dello scorso anno ai 1.905 del 2021, come certificato in un decreto del ministero dell’Interno pubblicato il 6 marzo scorso sulla Gazzetta ufficiale. La tariffa viene aggiornata ogni anno, perché è in base alla cifra stabilita che poi viene commisurata la sanzione amministrativa nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini sprovvisti del permesso di soggiorno.
I famosi voli charter, che nei piani di Lamorgese dovevano passare dai soliti due a settimana (per complessivi 80 passeggeri) ai quattro previsti per ottobre 2020, appositamente noleggiati, hanno acceso i motori soltanto 76 volte, 14 delle quali con la collaborazione di Frontex. Ma non ci sono solo il Covid e gli espedienti messi a punto nei Cpr tra gli intoppi: anche le relazioni diplomatiche non sembrano incidere granché. Spesso per acquisire i necessari documenti di viaggio da ambasciate e consolati passano mesi. E se l’immigrato da espellere non è tra quelli indicati come «pericolosi», bisogna ultimare la procedura in 90 giorni, dopo i quali le autorità sono costrette ad aprire le porte dei Cpr e rilasciare il trattenuto con un ordine del questore di lasciare il territorio italiano entro sette giorni. Ma è difficile che qualche immigrato lo rispetti.
A causa dell’atteggiamento poco collaborativo, 13 Paesi (Iraq, Iran, Libia, Senegal, Somalia, Mali, Gambia, Camerun, Repubblica del Congo, Egitto, Eritrea, Etiopia e Guinea-Bissau) sono finiti in una lista nera dell’Ue e potrebbero subire restrizioni sui visti Schengen. Nel frattempo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio fa i capricci sulla Tunisia a giorni alterni. Dopo la visita a Tunisi dell’agosto 2020 il ministro degli Esteri profetizzava come «unico esito» per gli irregolari «il rimpatrio». Qualche mese dopo, però, ha chiesto di sospendere il finanziamento al Paese nordafricano dal governo italiano «in attesa di un risvolto nella collaborazione chiesta alle autorità tunisine in materia migratoria». La diplomazia sembra inefficace.
Altro che «Piano senza precedenti per i rimpatri», quello presentato da Di Maio subito dopo il suo insediamento alla Farnesina insieme al silurato collega ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è rimasto sulla carta. Proprio come la lista di 13 Paesi da considerare sicuri per ottenere espulsioni più veloci e lo snellimento burocratico nel processo di redistribuzione.
A dicembre ha storto il naso pure il Marocco. Con il capo del controllo delle frontiere del ministero dell’Interno Khalid Zerouali che ha gelato l’Unione europea respingendo la richiesta di riprendere i cittadini di Paesi terzi che raggiungono l’Europa partendo dal regno nordafricano usando parole nette: «Il Marocco non è nella logica del subappalto e insiste affinché ogni Paese si assuma le proprie responsabilità nei confronti dei propri cittadini».
Il tutto mentre dal Parlamento europeo rinnovavano la richiesta agli Stati membri di investire nei programmi di rimpatrio volontario assistito, visto che sono più sostenibili e semplici da organizzare, anche in termini di cooperazione con i Paesi di destinazione. E allora è partita Lamorgese, volata ad Algeri a settembre 2020 per incontrare il suo omologo algerino Kamel Beldjoud. I due ministri sembravano aver condiviso l’impegno ad attuare «nuovi modelli operativi con particolare riferimento alle procedure di rimpatrio, anche al fine di renderle più efficienti e velocizzarne l’esecuzione» ma, dopo i soliti proclami, qualcosa nella relazione deve aver trovato un incaglio.
Dall’Algeria il flusso migratorio verso la Sardegna non si è arrestato. E pur essendo in vigore tra Roma e Algeri un accordo del 2003, per tenere il conto dei rimpatriati non serve neppure il pallottoliere. Dal 2015 al 2017, per esempio, stando ai dati del Viminale, sono partiti soltanto in 245, a fronte di più di quattro mila espulsioni. Chi è rimasto in Sardegna finisce spesso ancora oggi nei comunicati stampa di polizia e carabinieri identificato come «già espulso» e arrestato per risse, furti e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un problema che non riguarda solo algerini e tunisini (primi anche nel 2021, con 1.285 approdi in Italia). Una grossa fetta di irregolari proviene da Paesi con i quali l’Italia non ha nessun accordo per i rimpatri.
Le trattative per le identificazioni e per le espulsioni viaggiano quindi solo tramite ambasciate e consolati. E vengono svolte caso per caso, con tempi che difficilmente coincidono con quelli della legislazione italiana sul trattenimento nei Cpr. Da uno studio di Openpolis e ActionAid risulta che l’Italia riesca a rimpatriare solo il 20 per cento degli immigrati che hanno ricevuto un ordine di espulsione (per l’area sub-sahariana i dati crollano in alcuni casi fino al tre per cento). Gli altri tornano in libertà, con l’obbligo di lasciare il Paese autonomamente. Un modo alternativo alla richiesta di asilo per restare in Italia. Ma da clandestini. n
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