Il nuovo Guardasigilli Marta Cartabia sostiene che il Recovery Plan è un’occasione irripetibile per attuare il cambiamento che ci chiede anche la Ue. Ma dopo la scoperta della «Loggia Ungheria» tra i togati, i partiti vanno in ordine sparso.
Il signor Rocco, pensionato barese settantaseienne, non conoscerà mai gli inverosimili retroscena della fantomatica «Loggia Ungheria», l’ultima granata che ha fatto esplodere la magistratura. Gli interessava divorziare dalla moglie. Aveva perfino spiegato ai giudici di essere malato: «Dovete fare presto…». È morto qualche giorno fa, dopo aver aspettato invano otto anni. Le pirotecniche rivelazioni dell’avvocato siciliano Piero Amara, il pentito che continua a mascariare il «sistema», gli importavano ben poco. Sperava solo in una decisione in tempi ragionevoli.
Illuso. Il povero Rocco e chiunque incappi negli infernali gironi giudiziari italiani. Quasi un trentennio dopo i primi accorati allarmi, siamo nuovamente di fronte al momento solenne. «Abbiamo un compito storico e un’occasione irripetibile con il Recovery Plan. La riforma della giustizia ne è il pilastro» dice Marta Cartabia, che della Giustizia è ministro. «Se fallisce, molto semplicemente, non avremo i fondi Ue».
Insomma, anche i governanti europei si sono stancati di promesse scandite da tempi immemori: quelli in cui Silvio Berlusconi saliva, per la prima volta, a Palazzo Chigi. Sono passati governi d’ogni foggia. Ai magistrati non è stato torto un capello. Anzi: pm e giudici hanno continuato a fare e disfare. Solo che, adesso, Bruxelles sgancerà 248 miliardi di euro. E vuole conseguenti garanzie. Certo: i nostri eletti, per paura di ritorsioni, si limiterebbero al solito buffetto. La storia insegna: chiunque abbia tentato di mettere le mani nella poltiglia, è rimasto nel pantano. Dal Cavaliere, ancora assediato dai processi, all’ex Guardasigilli Clemente Mastella, disarcionato da una provvidenziale indagine.
Stavolta però, davanti agli eurocerberi, non si può fischiettare mani in tasca. Solo che il momento, per la giustizia, non è mai stato tanto drammatico. Che il Csm non fosse un consesso di disinteressati gentiluomini s’era intuito con l’inchiesta «Toghe sporche», protagonista Luca Palamara: politicizzazione selvaggia, faide torrentizie, nomine pilotate. Più in basso di così, ragionavamo, non si può cadere. Errore. Eccoci nel bel mezzo della spy story definitiva: liti fra procure, corvi che inviano verbali segreti, segretissime consorterie massoniche.
Riassuntino. Paolo Storari, pm di Milano, nel 2019 mette a verbale i racconti di Amara, ex legale esterno dell’Eni, già condannato per aver corrotto giudici. Gli parla della «Loggia Ungheria», di cui avrebbero fatto parte anche alcuni togati. Storari vorrebbe approfondire: il controverso avvocato dice il vero o va processato per calunnia? Sente però odor di insabbiamento. Dunque, passa le carte al magistrato più intransigente su piazza: rinomato fustigatore mediatico, già eroe di Mani pulite, all’epoca consigliere del Csm. È Piercamillo, detto «Piercavillo», Davigo. Frase celebre: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». E proprio la segretaria del magistrato, ora in pensione, è accusata di aver mandato ad alcuni giornali i verbali di Amara.
Soltanto l’ultimo scandalo, appunto. Cartabia, ex presidente della Corte costituzionale, è una fervente cattolica. Ha un sorriso un po’ sornione ma molto benevolo. Ama citare Sant’Agostino: «Nelle mani i codici, negli occhi i fatti». Difatti. Ci sono le inchieste sul Csm, gli arresti di magistrati presunti corrotti, il giudice scroccone uso a lasciar insoluti nei ristoranti e quello che avrebbe nascosto un arsenale. E soprattutto ci sono i tempi della sentenze che, accordandoci alla devozione della ministra, restano biblici.
I tribunali erano già al collasso prima del Covid. Figurarsi adesso. Il Consiglio d’Europa conferma gli indiscutibili primati tricolori. A partire dalle cause civili: quelle citate per lungaggini anche dal premier, Mario Draghi. In Italia durano 2.655 giorni, oltre il doppio di Francia o Spagna, il triplo della Germania. Per concludere un processo penale servono, invece, 1.367 giorni. E il paragone con gli altri Paesi è ancora più impietoso. Per i tre gradi teutonici bastano 350 giorni. Per quelli iberici 463.
E la giustizia amministrativa, ovvero i mitologici Tar? Portate, ancora una volta, pazienza: ci vogliono 1.679 giorni per una sentenza definitiva. Il peggior dato tra tutti. La riforma più urgente, perché impatta sull’economia, è la giustizia civile. L’obiettivo del Recovery Plan sembra chimerico: tagliare i tempi dei processi del 40 per cento. Per quelli penali, invece, ci si accontenterebbe del 25 cento. Cartabia non ha chiarito come si adopererà. Ai pochi che hanno avuto la fortuna di intervistarla ha però mostrato una certa cautela. Come si può cambiare il Csm, che ha perso ogni autorevolezza? «Ho chiesto alla commissione guidata da Massimo Luciani di studiare i possibili ambiti d’intervento». E le porte girevoli, che consentono ai magistrati di entrare in politica e poi tornare in tribunale? «Il tema sarà affrontato dalla commissione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario». E il blocco della prescrizione voluto dal suo predecessore, il grillino Alfonso Bonafede? Pure in questo caso, la ministra più amata dal Quirinale ha pronta una commissioncina, pronta a individuare «un ventaglio di ipotesi».
E le intercettazioni? «Un dossier che non ho neanche iniziato a istruire». Chi vivrà, vedrà. Per non parlare del codice penale, che andrebbe rivisto in modo garantista e pragmatico. O l’obbligatorietà dell’azione penale, ormai tragica burletta. Oppure la separazione delle carriere tra giudici e pm, più urgente che mai. Insomma, la donna da cui dipendono le nostre sorti prende tempo. Mentre il capitolo del Piano nazionale di ripresa e resilienza dedicato alla giustizia assomiglia a un bignamino di felpate intenzioni. Del resto, la premessa è fulminante: la giustizia italiana è «autonoma», «indipendente», caratterizzata da «massima professionalità». Almeno viene risparmiato lo strabiliante intendimento del Recovery presentato dall’ex premier, Giuseppe Conte: «Ridurre il carico di lavoro per i magistrati». Non affaticare, quindi, i togati: solertissimi. Nonché infallibili. L’ultimo rapporto dell’associazione Errori giudiziari rivela che, dal 1992 alla fine del 2020, ci sono stati 29.452 persone condannate con sentenza definitiva e poi assolte in un processo di revisione. Con lo Stato che ha speso quasi 800 milioni di euro per gli indennizzi.
Intanto, la riforma del processo penale approda in Parlamento. Il disegno di legge è all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio. Ne uscirà malconcio. Si dovrebbe comunque partire dalla prescrizione voluta da Bonafede. Molti, da Forza Italia alla Lega, chiedono di reintrodurre una norma che eviti processi eterni. I Cinque stelle, al contrario, sono per l’abrogazione completa. Invece il Pd, pilatesco, punta sul cavallo vincente: velocizzare, a parole, i processi.
È l’eterna lotta tra giustizialisti e garantisti. Nel tribolato momento si segnalano pure rocamboleschi rovesciamenti di fronte. Come quello di Beppe Grillo. Da quando s’è affacciato sbraitante sulla scena politica, ha sempre inneggiato agli schiavettoni. Ma adesso Ciro, il figliolo, è accusato, assieme a tre amici, di aver violentato una diciannovenne nella sua casa di villeggiatura a Porto Cervo. Così l’ex comico, con quel farneticante video in difesa dell’ultimogenito, s’è trasformato nell’Elevato più garantista del creato. Anche il suo volto rabbioso ora può apparire in effige all’immaginaria bandiera italiana di Leo Longanesi. Quella su cui campeggia una grande scritta: «Tengo famiglia».