I benefici previsti dal governo per compensare il caro bollette arriveranno ad alcune categorie sociali e meno ad altre. Una «selezione» per contribuenti fatta con criteri che appaiono in molti casi ideologici, più sensibili al lavoro dipendente rispetto a quello autonomo. Perché si ritiene quest’ultimo maggiormente portato all’evasione…
«Dammi tre parole…», furoreggiava una canzone qualche anno fa. Oggi, però, per capire bastano forse tre cifre: diminuzione del Pil nel primo trimestre 2022 pari allo 0,2 per cento; aumento dei prezzi alimentari del 6 per cento; aumento delle entrate fiscali del 13,7 per cento. Altri tre numeri: diminuzione della produzione industriale 0,9 per cento (ma 2,9 in meno rispetto all’ultimo trimestre del 2021), crollo del potere di acquisto delle famiglie di 5 punti, debito pubblico record a 2.755 miliardi. Per dirla in tre parole: siamo al verde. Lo Stato, in qualche modo, da una parte cerca di correre ai ripari, dall’altra per giustificare una «coperta» cortissima torna a parlare di fisco, tasse ed evasione. Recita l’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare della burocrazia, delle scelte ideologiche, dell’evasione certo, come anche dei professionisti dell’anti-evasione quelli che per giustificare ogni inefficienza, ogni parassitismo, ogni diseguaglianza evocano appunto «i furbetti dello scontrino». Il paradosso è che si è arrivati a una sorta di «razzismo fiscale»: gli evasori per definizione che nulla devono avere.
La dimostrazione lampante è il famoso (e fumoso, ma non è una novità) bonus da 200 euro una tantum contro il caro bollette contenuto nel decreto Aiuti. È solo l’ultimo della composita famiglia dei bonus. Stando all’associazione Cgia di Mestre, guidata da Renato Mason, sono attivi 40 «sconti» che pesano sulle casse pubbliche 112,7 miliardi di euro nel triennio 2020/22. Uno sproposito di «pezze a colori» che non rendono possibili riforme organiche. Fino a esiti tragicomici. Il 6 aprile scorso, incoraggiando gli italiani a sentirsi parte dei sacrifici per contrastare l’invasione dell’Ucraina, Mario Draghi ha affermato: «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?». Si è risposto da solo perché dal 23 maggio è tornato attivo il bonus condizionatori – detrazione fiscale dal 55 al 65 per cento della spesa – contenuto nel pacchetto bonus mobili, ecobonus, bonus ristrutturazioni edilizie e anche bonus tende da sole, evidentemente per i pacifisti che rifiutano il condizionatore. Il fatto è che tali agevolazioni prevedono quasi tutte la detrazione fiscale. Il risultato, alla lunga, sarà che lo Stato dovrà alzare le imposte per pareggiare i mancati introiti. I numeri di inizio anno lo certificano. Quel 13,7 per cento in più di entrate fiscali contiene aumenti di imposte dirette (+8,7 per cento), di imposte sugli utili (+22,8 per cento) nonché di incrementi dell’Iva (+57,8 per cento): perché lo Stato con i bonus apparentemente dà, ma molto di più prende grazie ai rincari sul prezzo dell’energia.
E si arriva così al bonus 200 euro. Che è un capolavoro d’ingiustizia fiscale. Spetta ai lavoratori dipendenti, ai pensionati, a chi riceve il reddito di cittadinanza, a chi fa lavori saltuari, ma per chi lavora con la partita Iva la faccenda si complica. Lo incasseranno, si e no, in 400 mila su una platea di oltre 7 milioni di contribuenti «autonomi». È stato posto un tetto di 35 mila euro lordi di reddito, ma c’è un indicatore indispensabile: aver usufruito dopo luglio almeno per un mese dell’esenzione dall’obbligo contributivo. Il risultato è che tutti i precari della scuola che di regola vengono licenziati a luglio non incasseranno i 200 euro. Stessa cosa accade se si lavora in settori dove le assenze per malattia non sono a carico dell’Inps. Chi percepisce il reddito di cittadinanza si vede riconosciuti i 200 euro; ma se una persona ha un reddito pari a zero non si vede riconosciuto nulla. Caso concreto: in una coppia di anziani, un coniuge ha la pensione di invalidità, mentre l’altra persona è a carico. Ecco, nessun bonus va a quest’ultima. Invece, a un giovane impiegato statale single, con uno stipendio mensile da circa 3 mila euro lordi, il bonus viene riconosciuto. La disparità di trattamento è palese.
Sulle partite Iva la discriminazione stride ancora di più. Mentre per i dipendenti provvedono con lo stipendio di luglio i datori di lavoro (che poi forse vengono rimborsati dall’Inps), così come ai lavoratori pubblici e ai pensionati pensa direttamente l’Inps, gli autonomi devono invece fare domanda e sperare che nel frattempo si sia costituito il fondo per loro: 4 o 500 milioni di euro che ovviamente non basteranno per tutti. Per i dipendenti sono stati stanziati circa 2,74 miliardi; cifra analoga per i pensionati, circa un miliardo è destinato a chi percepisce il reddito di cittadinanza e disoccupazioni varie. La platea dei beneficiari è di 31,5 milioni di italiani. Gli altri? Per loro non fiat lux.
Spiega a Panorama il professor Raffaello Lupi, ordinario di diritto tributario all’Università Roma Tor Vergata, autore del saggio dal titolo provocatorio Manuale di evasione fiscale (Castelvecchi): «Siamo alla piena dimostrazione delle inefficienze del nostro fisco. Ho intitolato uno dei capitoli del mio libretto: “Il razzismo sociale delle spiegazioni moralistico-pedagogiche”. Ma si può anche definirlo “razzismo fiscale”. C’è l’immagine dei “contribuenti disonesti”, degli “evasori congeniti”, una sorta di nemici del popolo. Quest’idea lombrosiana di evasore per tendenza, è ispirata anche a strumentalizzazioni politiche, dove il non dipendente, il piccolo commerciante, l’artigiano o imprenditore che sia, per lunghi anni è stato visto come un deviante, almeno potenziale, rispetto al modello operaio-impiegatizio. La cultura che colpevolizzava i datori di lavoro in quanto “sfruttatori”, si ripresenta con la diversa colpevolizzazione in quanto “evasori”. In realtà è la dimostrazione che lo Stato non sa farsi pagare». E rincara Lupi: «Checché ne dica Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle entrate, il suo ente non riscuote nulla. Si è affidato a organizzazioni complesse come le imprese, agli aggregati che diventano sostituiti d’imposta. Le quali fanno il lavoro per conto dell’Agenzia. E la vera evasione sfugge. Ed è molto più vasta di quanto si dica. Se fosse combattuta per davvero, mi chiedo, quali sarebbero gli esiti in termini di disagio sociale?». L’esperto di tributi è un acerrimo difensore del valore sociale e politico delle tasse, ma spiega che l’inefficienza dell’Italia finisce per rendere ancora più iniquo il fisco.
Chi afferma che siamo in presenza di un autentico pregiudizio fiscale è Alberto Brambilla, presidente del think tank Itinerari previdenziali, anche lui fresco di stampa con Il consenso a tutti i costi, quando la politica promette il cittadino deve sempre chiedere: chi paga? (Guerini & associati). Brambilla da anni redige un rapporto sulla previdenza. L’ultimo – anno 2021 – conteneva un’amara considerazione: bisogna arrivare alla separazione tra previdenza e assistenza per rendere sostenibile il sistema. La convinzione dello studioso sta in questi numeri: «Nel 2020 la spesa a carico della fiscalità generale per tutte le forme di assistenza è stata pari a 144 miliardi, solo 10 miliardi in meno rispetto a quella delle pensioni al netto della fiscalità, che grava per 56 miliardi su circa il 30 per cento dei 16 milioni di pensionati, dato che quasi 10 milioni di loro o non versano nulla o pochissimo. E non dimentichiamo che le pensioni sono pagate dai contributi sociali, mentre l’assistenza grava sul 30 per cento dei contribuenti onesti che, per giunta, non ne possono neppure beneficiare». A fronte di questa spesa – cresciuta in dieci anni del 56 per cento e che nel 2022 sarà pari a 155 miliardi di euro – gli italiani in povertà assoluta sono passati da 2,8 a 5,6 milioni. Qualcosa evidentemente non funziona. E sotto accusa torna il reddito di cittadinanza, su cui l’ex premier Matteo Renzi vuole indire un referendum abrogativo. Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha fatto sapere che ad aprile tra reddito e pensione di cittadinanza ne beneficiano 2,65 milioni di persone tra cui 238 mila extracomunitari e 90 mila cittadini Ue. L’importo varia tra un minimo di 458 euro per una sola persona a 741 euro per le famiglie con cinque componenti. La spesa totale in tre anni per lo Stato è stata di 20 miliardi.
Per il ministro del Lavoro Andrea Orlando è uno strumento indispensabile per combattere la povertà e il vero errore è stato «raccontarlo come strumento che poteva risolvere il vuoto sulle politiche attive del lavoro». Il suo dicastero avrebbe dovuto proporle, ma per ora non si sono viste. Ogni anno, in compenso, si rincorrono le percentuali che spiegano come si nasconda tutto al fisco. Dice ancora Lupi: «Rimando a un altro mio libro: Evasione fiscale, perversione privata o disfunzione pubblica. I numeri, sottoposti ad adeguata torsione, dicono ciò che si vuole. Un esempio. Si ripete: solo il 4 per cento dei contribuenti dichiara redditi sopra i 100 mila euro. Ma quel 4 per cento è riferito a 40 milioni di dichiarazioni, di cui quasi 16 milioni sono a gettito zero». Forse si dovrebbero rifare i conti. Una cosa però è sicura: il 21 per cento dei contribuenti paga il 72 per cento dell’Irpef. Sarebbe il caso di affiancare all’Agenzia dell’entrate, che tutto sa dei nostri soldi, anche un’Agenzia delle uscite che ci dica dove e come lo Stato li spende.