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Dopo la Russia, l’Italia ora è alla prova sulla CIna

Dopo la Russia, l’Italia ora è alla prova sulla CIna

Oltre all’impegno con l’Ucraina invasa da Mosca, il nostro presidente del Consiglio deve fronteggiare Pechino. Da questo dipende la collocazione atlantica dell’Italia.


Neanche il tempo di ribadire l’impegno italiano in Ucraina, che già Giorgia Meloni deve fare i conti con un nuovo fronte. Gli occhi del mondo, infatti, sono tornati a osservare con insistenza l’accordo italo-cinese della Via della Seta. L’accordo fu firmato in pompa magna dal governo Conte I nell’ormai lontano 2019, ma costituì il momento culminante di un lungo flirt con Pechino iniziato tempo addietro, quando a Palazzo Chigi sedeva (ancora) Paolo Gentiloni e al Quirinale c’era (già) Sergio Mattarella. Oggi a Chigi è presidente lei, Meloni, che sulla Cina – e sull’indipendenza di Taiwan – si è fin qui mossa in sostanziale continuità rispetto al suo predecessore Mario Draghi.

Dell’accordo fecero discutere la struttura e le clausole, come quella del rinnovo automatico salvo disdetta con almeno tre mesi di anticipo. Quanto invece agli affari che l’intesa prometteva di moltiplicare, parvero già allora poca cosa rispetto agli scambi che Francia e Germania vantano storicamente con la Cina. Non a caso, le dichiarazioni sul versante italiano si concentrarono sulle esportazioni agroalimentari dal Belpaese. In compenso, a colpire gli osservatori occidentali fu la volontà delle massime istituzioni italiane di elevare «sopra soglia di visibilità» il rapporto con la Cina.

L’intesa, insomma, era il corollario di questa volontà, e la vera notizia era la riflessione che lo precedette e la consacrazione dello status imperiale della Cina di Xi, con marcato simbolismo dato dalla coreografia romana. Chi si concentra sul solo rinnovo dell’accordo rischia dunque di fissare il dito e non la luna. È senz’altro importante sapere, nell’ordine: se a Palazzo Chigi si tenteranno (improbabili) balletti oppure verrà redatta una nota per comunicare la disdetta, se la disdetta avrà ampio risalto oppure passerà sotto traccia, se i cinesi per ritorsione arresteranno qualche imprenditore italiano. Molto più significativa, tuttavia, appare la postura complessiva che assume il nostro Paese rispetto a Pechino. Proprio su questo aspetto, si registra qualche nota dolente. Nel corso della recente tappa romana di Wang Yi, il plenipotenziario cinese per la politica estera, sono stati in pochi a soffermarsi sul comitato d’accoglienza italiano.

Ad attendere Wang Yi, oltre che Antonio Tajani, vice-premier e ministro degli Esteri, c’era Sergio Mattarella, cioè il presidente della Repubblica. A prima vista, lo schema ricalca quello usato dai francesi. A Parigi, infatti, Wang Yi ha incontrato Emmanuel Macron e Catherine Colonna, rispettivamente presidente e ministro degli Esteri francesi. Ma non sono rilevanti solo le simmetrie con le altre capitali europee. Conta, piuttosto, la legittimazione offerta da Roma alla Cina in una fase di contrapposizione «a blocchi» sempre più aspra tra Occidente ed Eurasia. Colpisce in particolare l’insistenza con cui Mattarella e Tajani hanno invitato Pechino di fare da paciere in Ucraina.

Si tratta di un’ipotesi inconcepibile per i nostri partner sull’altra sponda dell’Atlantico. La risposta americana, difatti, non ha tardato ad arrivare, sotto forma di un duro monito pubblico ai cinesi da parte del segretario di Stato statunitense Anthony Blinken: guai a fornire ai russi equipaggiamento militare. Più chiaro di così non si poteva. Resta il fatto, poi, che certi toni italiani ricordino quelli dei Brics – quei Paesi che sono accomunati da interessi comuni a livello economico e corrispondono a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Poche settimane fa è stato il presidente brasiliano Lula a imbarazzare il cancelliere tedesco Olaf Scholz, lasciandosi andare a una tirata pubblica sulla «equidistanza» in Ucraina, e sul ruolo risolutivo che Pechino potrebbe giocare.

Non è andata meglio con il Sudafrica, che ha pensato bene di svolgere un’esercitazione navale congiunta con Cina e Russia il 24 febbraio, cioè nell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. Ma l’Italia non è un Brics e l’anno prossimo avrà la presidenza di turno del G7. Può darsi che l’enfasi di Mattarella e Tajani sul ruolo diplomatico della Cina non sia altro che un modo per «addolcire» il mancato rinnovo, di qui a qualche mese, dell’accordo sulla Via della Seta. È una cosa questo che appureremo presto. n

L’autore, Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar

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