Si avvicina la scelta del prossimo inquilino al Colle. Scenario complicato che non gioca solo la carta Draghi. Nel caso Mr Bce non venga eletto servirà un presidente filo-americano, di contrappeso alla Germania senza essere subordinato alla Francia e fermo verso i tentativi di manipolazione cinese sul sistema economico e politico tricolore. Bene i viaggi di Giorgetti a Washington.
Molti nei giorni scorsi si sono affrettati a vedere nelle spaccature emerse nei gruppi parlamentari di fronte al voto sul ddl Zan un antipasto di quel che succederà nell’elezione del prossimo Capo dello Stato. Si tratta, tuttavia, di due voti ben diversi, seppure con le stesse modalità. Un voto su una legge proposta da una parte politica, presentata come guerra di civiltà e fattore polarizzante, che cercava una maggioranza dentro la più ampia maggioranza di governo non è paragonabile all’elezione del Presidente della Repubblica. In questa seconda occasione possono emergere scenari diversi e soprattutto ci saranno dei registi che sul ddl Zan si sono solo in parte o per nulla manifestati. E poi, naturalmente, non si tratta di votare una legge o una proposta di parte, ma di eleggere il perno fondamentale del sistema politico italiano. I partiti sono senza dubbio frazionati e i gruppi parlamentari difficili da controllare, ma questo è un tratto oramai costante da quindici anni a questa parte. Dunque attenzione a confondere le pere con le mele.
Ad ogni modo, le ultime settimane hanno visto una impennata di speculazioni relative all’elezione del prossimo Capo dello Stato. Gli scenari restano sostanzialmente tre. Il primo è l’elezione di Mario Draghi, verosimilmente nei primi tre scrutini (maggioranza richiesta 2/3), con l’appoggio dei partiti che sostengono il governo. Magari con un accordo sottinteso sulla prosecuzione della legislatura fino al 2023 con un altro presidente del Consiglio. Sarebbe una scelta lineare, ma restano due problemi in campo. Il primo è che il Pd vorrebbe un candidato meno autonomo di Draghi e più vicino culturalmente al partito mentre il presidente del Consiglio può restare al suo posto fino a fine legislatura; il secondo ostacolo sono le diffidenze di Forza Italia, dei centristi, del gruppo misto e del Movimento 5 Stelle che temono un possibile ritorno alle urne dopo l’elezione del presidente del Consiglio. Il meccanismo di ritorno al voto popolare dopo l’elezione di Draghi non è automatico, non è scritto nella Costituzione, ma si riuscirà a trovare un accordo tale da mandare Draghi al Quirinale e tranquillizzare questi partiti sul fatto che si formerà una maggioranza dopo l’elezione del nuovo Capo dello Stato? Il nodo Draghi si gioca intorno alla tessitura di tale accordo e i “pontieri” Renzi, Berlusconi ed esponenti dei gruppi minori centristi, potrebbero giocare un ruolo importante nella convergenza di tutta l’attuale maggioranza sul nome del presidente del Consiglio.
Il secondo scenario è la rielezione di Sergio Mattarella. Una scelta che nelle ultime settimane sembra meno probabile. In primis perché l’attuale presidente si è più volte mostrato recalcitrante verso questa ipotesi; in secondo luogo perché sarebbe un iter particolare, accaduto in via eccezionale solamente per Giorgio Napolitano in quasi settant’anni di Repubblica; terzo, oggi sembra molto improbabile che Lega e Fratelli d’Italia possano appoggiare una rielezione di Mattarella. Può il presidente uscente accettare un secondo mandato senza una richiesta di tutti i partiti come successe con la rielezione di Napolitano? Se ciò accadesse si verificherebbe un precedente costituzionale inedito e forse poco appropriato sul piano istituzionale. Il terzo scenario, invece, è quello che sta prendendo maggiormente quota negli ultimi giorni. Qualora la possibilità di eleggere Draghi o Mattarella dovesse sfumare per i motivi sopra esposti, si dovrebbe necessariamente convergere su un terzo nome. Qui le possibilità sono varie (Gentiloni, Cartabia, Casini, Amato) e di diverse sfumature dal “tecnico” al “politico trasversale”, ma è probabile che una figura del genere sia scelta dopo il terzo scrutinio e da una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo. In questo scenario un ruolo chiave può essere svolto ancora da Renzi e Berlusconi, i quali potrebbero garantire al centrosinistra i voti necessari per trovare una figura di compromesso d’area democratica o di stampo istituzionale. In questo caso Draghi resterebbe al suo posto, ma ciò non significa che non possano esserci ricadute sulla maggioranza. Nel 2015 il patto di legislatura tra Renzi e Berlusconi si sfasciò proprio per la mancata condivisione del primo della scelta del nuovo presidente della Repubblica. Una rottura della maggioranza sarebbe più probabile soprattutto nel caso in cui la Lega resti fuori dalla maggioranza che eleggerà il nuovo Presidente, anche se con Draghi a Palazzo Chigi non sono molti gli incentivi a lasciare l’esecutivo per l’opposizione. Ad ogni modo, se Draghi non dovesse salire al Quirinale, è quasi certo che l’ultimo anno di legislatura sarà più complesso e pieno di tensioni rispetto a quello appena passato.
Da ultimo non bisogna dimenticare che l’elezione del Capo dello Stato è interessata da dinamiche internazionali. La Francia, per la discussione in corso del Trattato del Quirinale, ha grande interesse che alla Presidenza della Repubblica Italiana sia eletto un nome gradito a Parigi, con cui possa proseguire un proficuo rapporto asimmetrico a favore dell’Eliseo. Ma essendo agli albori di una nuova e diversa guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, c’è anche il grande occhio degli americani sulle dinamiche politiche italiane. Un Capo dello Stato con inclinazioni filo-cinesi sarebbe intollerabile nella nuova quadratura di potere americana. In questa cornice, i viaggi e gli inviti oltreoceano del ministro Giancarlo Giorgetti sono un segnale: il settore “atlantico” del centrodestra deve stare nella maggioranza che eleggerà il prossimo capo dello Stato come contrappeso di garanzia alle pulsioni filo-cinesi del Movimento 5 Stelle e di pezzi del Partito democratico. Agli occhi di Washington, inoltre, l’Italia è anche un tassello importante per bilanciare l’egemonia tedesca e la tendenza a guardare verso Est della cancelleria di Berlino. Insomma, il peso americano è superiore a quello francese negli affari interni e internazionali, seppure la partnership franco-italica in ottica europea non è sgradita alla Casa Bianca. Questa volta servirà, dunque, un candidato già conosciuto, affidabile sul piano internazionale e di compromesso tra varie aree della politica italiana proprio come è stato fatto con la creazione del governo Draghi. Dovrà essere un presidente filo-americano, di contrappeso alla Germania senza essere subordinato alla Francia e fermo verso i tentativi di manipolazione cinese sul sistema economico e politico italiano. Un’ipotesi che restringe molto la rosa dei potenziali aspiranti.
