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La nuova sfida del caudillo rosso Pablo Iglesias

La nuova sfida del caudillo rosso Pablo Iglesias

L’ambizioso leader del partito Podemos ha rotto gli indugi e gli equilibri del governo Sánchez: si è dimesso da vicepresidente e il 4 maggio correrà alle elezioni per la comunità di Madrid. Dopo la fase istituzionale, il suo è «un ritorno alle origini». Scommettere il tutto per tutto, puntando sulle vecchie armi ideologiche (senza disdegnare però il potere vero).


Con una scarna telefonata, nel bel mezzo di un vertice franco spagnolo, il 42enne Pablo Iglesias ha comunicato al premier Pedro Sánchez la sua intenzione di lasciare la vicepresidenza dell’esecutivo per correre alle amministrative di Madrid del 4 maggio. «In politica si dovrebbe essere là dove è più utile, so che ci sono persone che non lo capiscono, ma io sono anche un antifascista di Madrid» ha dichiarato veemente alla stampa. Il ruolo di vicepresidente evidentemente non lo soddisfaceva più, molto meglio lanciarsi nell’arena elettorale, per allontanare «il pericolo di una deriva di destra» nella capitale.

Ma è una scelta che fa discutere nel pieno di una pandemia (3,2 milioni di casi e 73.000 morti in totale), con una situazione economica difficilissima (Pil nel 2020 a -11%, rapporto debito/Pil al 117,1% e primi dati del 2021 sotto le attese). Ma le priorità di Iglesias ora sono quelle di salvare un partito asfittico, Podemos, fondato nel 2014 (secondo i magistrati grazie al finanziamento di 7 milioni di euro dal regime venezuelano di Hugo Chávez prima e di Nicolás Maduro poi) per spezzare da sinistra l’egemonia bipartitica spagnola. Gli inizi sono stati entusiasmanti: 20,6% dei consensi alle elezioni generali del 2015, 21,5% in quelle successive del 2016, a un solo punto dagli appannati socialisti.

«La sua gestione delle tecniche di comunicazione politica nella fase iniziale è stata magistrale: scenografie spettacolari, discorsi molto elaborati, manifestazioni di massa, forte penetrazione dei media, uso intensivo dei social network… Ma poi qualcosa si è rotto, non è stato in grado di gestire il suo potere» dice il sociologo David Redolì. L’ambizione di Iglesias – che anche nel suo partito è definita «sfrenata» – l’ha portato presto ad azzardare il salto verso la premiership, attraverso una mozione di censura costruttiva nel 2017 contro il premier Mariano Rajoy, bocciata grazie all’astensione socialista. Il sondaggista spagnolo Andrés Medina, direttore dell’istituto Metroscopia commenta: «La sua liturgia, il suo stile “rilassato” senza giacca né cravatta, il suo modo di parlare più diretto e televisivo era in geniale contrapposizione con il grigiore comunicativo del tradizionale sistema partitico. Era la voce del popolo contro “la casta”, la causa del parassitismo nelle istituzioni».

Abbastanza comprensibile perciò che da fin subito Iglesias sia stato guardato con sospetto dalla classe politica spagnola del Psoe e del Pp, che hanno avuto però una parziale rivincita con le recenti inchieste su presunti utilizzi a fini personali di fondi elettorali del partito (un milione di euro circa). Attento – a parole – ai bisogni dei più deboli e dei dimenticati (la legge per calmierare gli affitti, che vorrebbe far approvare, sta rischiando di mettere in crisi l’esecutivo), nei fatti non ha avuto la coerenza di condividerne la condizione, come dimostrato dalle polemiche scoppiate all’interno del partito, quando nel 2018 ha acquistato una villa in uno dei più esclusivi quartieri fuori Madrid. Per questo peccato «ideologico» è stato costretto a passare per le forche caudine di un referendum interno, che però l’ha riconfermato leader (con il 68% dei voti).

Lui e la sua compagna, Irene Montero, portavoce del partito e deputata, formano un’affiatatissima coppia di potere, intercambiabile sia nella vita privata sia in quella pubblica. Da convinto «femminista», alla nascita delle loro due gemelle Iglesias non esitò a chiedere il congedo di paternità, lasciando «ufficialmente» per qualche mese, proprio alla compagna, la guida del partito. Viene tuttavia definito egocentrico, accentratore, umorale, contraddittorio, poco incline al rispetto delle regole; come quando, nonostante la positività al Covid della partner, ha interrotto la quarantena per presenziare un consiglio dei ministri.

Commenta Julián Quirós, direttore del giornale Abc: «Iglesias è un caudillo, apparso sulla scena come convincente imitazione di un tribuno della plebe, e con la capacità decisionale di tenere in pugno circoli e assemblee. Ma non appena ha ottenuto il potere, si è mosso come un autocrate e sono cominciate anche le purghe interne».

La vecchia idea romantica di un gruppo di amici alla testa di un movimento dalla forza giovanile dura poco. Presto Podemos si trasforma in un’organizzazione politica sottoposta a un leader unico, poco incline a dissidi interni e apporti di nuove esperienze. Le liti nel partito sfociano, due anni fa, nell’uscita del cofondatore e ideologo Íñigo Errejón – dopo essere stato sostituito senza tanti complimenti nel ruolo di portavoce proprio da Irene Montero.

Nello stesso anno Errejón ha fondato una nuova piattaforma politica, Más País, a cui Iglesias, con notevole faccia tosta, oggi ha chiesto (invano) l’appoggio nella corsa per la conquista di Madrid. Ma il caudillo rosso, nonostante gli ostacoli, non demorde: è sicuro di potersi giocare la partita della capitale, trasformando un voto che sembrava ormai scontato in una sorta di elezioni di midterm, con sicure ripercussioni sul governo nazionale.

«Democrazia contro fascismo»: è questo lo slogan utilizzato da Iglesias per lanciare la sua campagna elettorale: è convinto di riaccendere il senso identitario di quanti vedono un pericolo democratico nella destra spagnola di Vox (in crescita nei sondaggi al 15% al contrario di Podemos, scivolata al nove). A sua volta il partito di destra ha risposto con il contro-slogan «comunismo o libertà», in un ritorno alla vecchia contrapposizione ideologica tanto cara al «compañero» Iglesias delle origini. Ma questa mossa «movimentista» potrebbe anche coincidere con la fine della sua parabola politica, come ha già preconizzato la sua rivale, l’attuale presidente del partito popolare della comunità di Madrid, Isabel Díaz Ayuso, per uno strano incrocio del destino nata il 17 ottobre 1978, stesso giorno e anno di Iglesias.

«Più megalomane che coraggioso, il leader di Podemos corre come antagonista della destra, gioca la sua partita e vuol aprire una crisi con il Psoe» ha commentato il politologo Miguel Amon. In effetti Podemos è stato per 15 mesi una spina nel fianco del governo, e Sánchez deve essersi ricordato molte volte di quando, nel 2019, dichiarò al canale televisivo la Sexta: «Non potrei mai fare una alleanza con Podemos, non dormirei più la notte».

Molta insonnia in questi mesi per il premier che, oltre al virus, ha dovuto fronteggiare le tante questioni sollevate da Iglesias: la legge sugli affitti, la riforma del lavoro con una settimana di quattro giorni, l’idea di un referendum per abolire la monarchia, la questione catalana hanno creato tensioni nell’esecutivo. Ecco che il commento dei ministri socialisti, una volta appresa la notizia delle dimissioni dell’ingombrante collega, è stato un liberatorio: «Que vaya» (Che se ne vada pure). Da mesi Sánchez è alla ricerca di una sponda in Ciudadanos, la formazione di centro, per uscire dall’impasse con Podemos.

Lui, il vicepresidente, si è reso conto della situazione e ha riflettuto forse su quel che disse due mesi fa al giornalista Fernando «Gonzo» González, nel programma Salvados: «Ho capito che essere al governo non è essere al potere». Meglio uscirne e lanciare un’altra delle sue sfide spericolate, tutta «sangue e arena». Con il rischio, però, che sia l’ultima.

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