Il caso Laura Boldrini è solo la punta dell’iceberg. I cosiddetti portaborse ricevono il peggio dai loro datori di lavoro: insulti, umiliazioni, contributi non versati, licenziamenti immotivati. Nessuno però denuncia per timore di ritorsioni.
Costretti a subire di tutto. Dalle scarpe tirate contro nei momenti di ira alle minacce continue di licenziamento, senza dimenticare la pretesa di restituire una parte di quello che viene riconosciuto in busta paga. «Mi è stato chiesto di rendere un quarto dello stipendio pattuito» dice un collaboratore. Addirittura qualche caso di contributi previdenziali non versati.
Benvenuti nel mondo dei collaboratori parlamentari, quei lavoratori che ogni giorno tirano avanti la carretta delle attività degli onorevoli. Nella diffidenza popolare con l’etichetta dei portaborse, uomini e donne al servizio della Casta. Ma dalla Casta ricevono spesso il peggio, perché nel luogo in cui si scrivono le leggi talvolta si verificano situazioni al limite dell’illegalità.
«Ho lavorato per una deputata che mi urlava contro, si levava le scarpe in ufficio e le lanciava contro di me. Lavoravo anche di domenica fino alle due di mattina», dice Francesco, collaboratore parlamentare, a Panorama, sotto garanzia di anonimato. «Mi ha umiliato, sminuito, spesso davanti agli altri».
Il peggio doveva ancora venire: «Dopo quattro mesi così, mi ha arbitrariamente dimezzato orario e stipendio. Dopo un mese part-time, mi ha licenziato mentre si sistemava i capelli, specchiandosi nella vetrina dell’ufficio, lasciandomi in mezzo alla strada. Sono cose che ricordi per sempre». Sul nome della deputata, glissa. Di sicuro è una mangia-collaboratori: «Ha cambiato più collaboratori di tutti. E chiunque abbia lavoratori con lei è “impazzito” come me. Dopo quell’esperienza ho avuto un forte esaurimento. Tuttora ne cambia in media uno ogni tre mesi». Perché non denunciare tutto? «Non ho fatto vertenza per non farmi una cattiva reputazione tra gli altri parlamentari».
Il caso Laura Boldrini, con la denuncia da parte di chi lavorava con l’ex presidente della Camera, è solo la punta dell’iceberg. E quel che colpisce, raccogliendo queste storie, è la richiesta di anonimato per timore di ritorsioni. «Se si sparge la voce che raccontiamo quel che accade, rischiamo di non trovare più alcun parlamentare disposto a farci sostenere un colloquio» spiega uno di loro.
Una forma di terrorismo psicologico.
In tutto questo, il presidente della Camera, Roberto Fico, è il simbolo delle promesse non rispettate. Da grillino purosangue aveva garantito una rivoluzione: usufruire delle risorse in modo trasparente ed efficace. Così ha incontrato più volte i rappresentanti dell’Associazione italiana collaboratori parlamentari (Aicp), che gli hanno inviato anche varie lettere di promemoria. Il risultato? La promessa, a favore di telecamere, di portare la delibera nell’ufficio di presidenza a Montecitorio per garantire una migliore regolamentazione anti-abusi sullo stile europeo, a partire dal pagamento diretto da parte dell’amministrazione della Camera.
«A questo punto il testo della delibera Fico sia calendarizzato e messo ai voti, anche al costo di rischiare la bocciatura. Almeno possiamo sapere chi davvero è contrario a questa regolamentazione» dice a Panorama José De Falco, presidente dell’Aicp.
La riforma è osteggiata dai parlamentari, che vogliono tenere il malloppo per disporne a piacimento. Avendo mano libera su qualsiasi vessazione. Carlo lavora con un parlamentare di centrosinistra: «In ogni dichiarazione c’è chi si erge a difensore dei diritti dei lavoratori. Peccato, però, che anche in orari improbabili, talvolta di notte, ho ricevuto messaggi con minacce di licenziamento, senza alcuna ragione plausibile. Poi, giorni dopo, ha ammesso che erano sfoghi personali».
La vicenda di Laura Boldrini è stata esemplare. Ha forgiato l’immagine di paladina dei diritti delle donne, salvo poi essere smascherata dalla sua ex collaboratrice, Roberta, che ha raccontato come nel corso dei mesi abbia dovuto prenotare la parrucchiera alla parlamentare. Che è in buona compagnia. Un altro strenuo difensore dei diritti civili, l’ex deputato del Pd, Khalid Chaouki, nella scorsa legislatura non aveva versato i contributi Inps alla sua collaboratrice parlamentare. Un’omissione scoperta quasi per caso. Sembrava impossibile che accadesse, invece era tutto vero.
Secondo quanto appreso da Panorama, l’allora parlamentare dem si sarebbe inizialmente giustificato, sostenendo che fosse un ritardo, una dimenticanza. I mesi si sono accumulati, diventando anni: la situazione è finita con le carte bollate. Eppure nemmeno l’intervento dei legali sarebbe riuscito a scuotere, in un primo momento, l’esponente dem. Solo la pressione mediatica ha cambiato qualcosa: allora presidente della Grande Moschea di Roma, Chaouki non poteva danneggiare oltre la sua immagine e quella delle istituzioni che rappresentava. Ora la questione è chiusa, i contributi sono stati versati.
In questo Far West nemmeno gli esperti sanno come muoversi. «A volte i consulenti del lavoro chiedono informazioni a noi per sapere quale tipo di contratto applicare» spiega Paola de Majo, membro del direttivo dell’Aicp e referente delle questioni contrattuali, che racconta: «Alcuni hanno proposto al parlamentare il contratto da colf, perché meno oneroso e di facile risoluzione. Abbiamo dovuto chiarire che non è possibile». Il motivo? «È illegale e si espone il parlamentare a un contenzioso. Il collaboratore, pagato con risorse pubbliche, non può essere certo inquadrato per le mansioni di un assistente personale».
Un’altra testimonianza rende l’idea: «Tra i Cinque stelle qualche deputato alla seconda legislatura ha instradato i neo-eletti chiedendo di far collaborare a partita Iva o con contratti a brevissima scadenza». Proprio loro, i «cittadini» arrivati a conquistare il Palazzo. C’è poi un problema di trasparenza: è possibile conoscere i collaboratori e le consulenze di Palazzo Chigi e dei ministeri, ma le informazioni sono off-limits per deputati e senatori. Così finisce che al posto di professionisti competenti vengano stipendiati amici degli amici o politici trombati. Questo sì, uno spreco di risorse. «Per migliorare il lavoro del Parlamento, occorre uno staff adeguato. Per averlo servono risorse congrue e dedicate. Dotarsi di collaboratori professionali è la miglior risposta al populismo» chiosa De Falco.
