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Venezuela: Maduro sotto accusa

Venezuela: Maduro sotto accusa

La Corte dell’Aja denuncia le responsabilità del dittatore e delle sue milizie nelle morti e nelle sparizioni di oppositori politici che, a sua volta, l’Organizzazione degli Stati americani ha stimato in oltre 18.000 persone. Nel Paese al collasso è il primo, faticoso passo per un rinvio a giudizio.


«Signore, abbi cura di mio figlio» supplica Paula, sentendo spari in lontananza, ma la tragedia ormai si è compiuta. José, il suo unico figlio, è già morto. Tre colpi di proiettili di grosso calibro al petto esplosi dalle Forze d’azione speciali, il famigerato Faes, create nel 2017 per espressa volontà del presidente «de facto» Nicolás Maduro, hanno stroncato la sua vita.

Era il 2019 a Caracas, a Las Adjuntas, uno dei quartieri più poveri e malfamati di questa metropoli di tre milioni di abitanti. E come José sono centinaia le vittime del Faes che ogni anno muoiono giustiziate a bruciapelo dagli sgherri del regime. Una situazione così drammatica che l’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, la socialista Michelle Bachelet, chiede da anni lo «scioglimento» della più sanguinaria delle milizie della dittatura venezuelana. Per la cronaca, la colpa di José era solo di aver partecipato alle proteste dell’opposizione che nel 2017 provocarono 125 morti, quasi tutti per mano delle forze dell’ordine.

Dopo tre anni di estenuanti indagini preliminari, la Corte penale internazionale (Cpi) ha finalmente concluso che «dal 2017 in poi sono stati presumibilmente commessi crimini contro l’umanità» in Venezuela e, dunque, a breve le migliaia di vittime della dittatura sperano che il Tribunale dell’Aja metta sotto processo la cupola politico-militare del regime.

Tra le vittime della dittatura un caso emblematico è quello di Juan Pablo Pernalete, studente assassinato il 26 aprile 2017 ad Altamira, un quartiere della capitale, da una Guardia nazionale bolivariana. La sua unica colpa: aver partecipato alle manifestazioni. «Juan Pablo era un giovane sognatore, un atleta di basket» raccontano oggi i genitori «e quel giorno era uscito a protestare per un Paese migliore in cui lui, sua sorella Gaby e noi potessimo vivere senza paura dell’insicurezza e con accesso a medicine e cibo che ci garantissero la vita». Juan Pablo è stato vittima del Piano Zamora, un disegno rigorosamente militare attivato dallo stesso Maduro nell’aprile 2017 per reprimere nel sangue ogni dissenso.

Secondo l’Oea, l’Organizzazione degli Stati americani, da quando Maduro è al potere il regime di Caracas ha commesso oltre 18.093 esecuzioni extragiudiziali, ovvero omicidi da parte delle varie milizie al soldo della dittatura, più di 15.000 detenzioni arbitrarie e diverse centinaia di casi di tortura. Da parte sua, l’Ufficio per i diritti umani dell’Onu ha rilevato che solo nel 2020 sono stati commessi più di 1.300 esecuzioni extragiudiziali; mentre secondo l’Osservatorio venezuelano della violenza, solo nel 2018 nel Paese ci sono stati 7.253 morti per mano di polizia e forze militari e paramilitari. Tradotto: in appena un anno Maduro è riuscito a superare di gran lunga il numero di esecuzioni effettuate in 17 anni da Augusto Pinochet, famigerato esempio dei regimi latinoamericani che violano i diritti umani.

Secondo l’avvocata Tamara Suju, direttrice dell’istituto Casla, il rapporto della procuratrice uscente della Corte penale internazionale, Fatou Bensouda, mostra che «in Venezuela sono stati commessi crimini contro l’umanità e i responsabili non sono stati indagati o processati, ma addirittura sono stati promossi, e continuano a commettere gli stessi reati». In questo senso, aggiunge la Suju, «proseguono gli arresti arbitrari e le torture, e la dittatura non ha intenzione di cambiare rotta».

Tra le testimonianze più dure quella del politologo e prigioniero politico Vasco da Costa, che ha descritto in una lettera come il cancro diagnosticato a un occhio sia una conseguenza delle torture subite, tra cui quella di coprirgli la testa con sacchi pieni di escrementi umani. O il caso del capitano di corvetta Rafael Acosta Arévalo, morto dopo supplizi inenarrabili. Il giorno prima del decesso era stato portato davanti a un tribunale su una sedia a rotelle con gravi segni di tortura sul corpo. Tra le pratiche più comuni applicate ai prigionieri politici, per estorcere confessioni false, l’avvocata Suju ha portato di fronte alla Cpi decine di testimonianze di persone che hanno subito scariche elettriche ai genitali e abusi sessuali.

«La tomba», «la tigrotta», «il frigorifero» e «l’acquario», «la stanza dei pazzi», «il pozzo», «la bara». Hanno nomi da romanzo horror le stanze delle torture del regime, chissà se mai un giorno potranno essere visitate dai turisti come accade oggi all’Esma di Buenos Aires, la scuola di Meccanica della Marina argentina, il maggior centro di tortura della dittatura di Jorge Rafael Videla. Già perché sono almeno nove i centri di tortura del regime Maduro riconosciuti dalla Cpi, grazie alle testimonianze raccolte dei parenti delle vittime.

I principali si trovano presso la sede del Servizio di intelligence nazionale bolivariano, il Sebin di Plaza Venezuela, e presso la sede della Direzione generale del controspionaggio militare, la famigerata Dgcim. Qui la pratica del crimine è sistematica per tutti i prigionieri politici. All’interno di queste strutture, i carnefici del regime praticano ogni tipo di sevizie e trattamento disumano sui detenuti. I più comuni sono l’isolamento delle vittime che non possono ricevere visite di avvocati e parenti per mesi, a volte per anni, ma anche il costringere i prigionieri a basse temperature che scendono fino a 2 gradi.

Molto comuni i disturbi del sonno a causa dell’esposizione a luci al neon bianche cui sono sottoposti i prigionieri politici 24 ore su 24. Poi c’è la privazione di uno o più sensi dei detenuti attraverso, per esempio, l’uso di bende o sacchetti di plastica che impediscono la vista e rendono difficile la respirazione. All’ordine del giorno le perquisizioni violente in cui i detenuti vengono picchiati e le loro medicine e altri effetti personali sottratti. Quando si vuole «forzare una delazione» per giorni o settimane i prigionieri sono privati di acqua e cibo.

Se la Corte penale internazionale processerà i responsabili, a quel punto chi farà affari con Nicolás Maduro, lo sostiene e lo protegge, compirebbe un’azione di insabbiamento, con conseguenze anche penalmente rilevanti. Ironia del destino, tutto questo accade proprio mentre il regime e l’opposizione guidata da Juan Guaidó stanno facendo un nuovo tentativo di dialogo, in Messico.
Il rapporto della Cpi è stato mantenuto top secret fino allo scorso 10 agosto quando le pressioni del Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Oea), Luis Almagro si sono fatte finalmente sentire.

Da tempo, Almagro sollecitava il Tribunale dell’Aja a occuparsi con più celerità delle gravissime violazioni dei diritti umani in Venezuela e della responsabilità di militari e alti funzionari del governo Maduro. Proprio l’ultimo rapporto Oea sul Venezuela, del 2 dicembre scorso, definiva il ritardo della procuratrice Bensouda «inaccettabile», nonostante «le prove schiaccianti presentate ai pubblici ministeri da numerose fonti affidabili».

Per l’Organizzazione, «la Cpi dovrebbe ora impegnarsi a perseguire anche i crimini commessi dal regime dal febbraio 2014 in poi», identificando specificamente 11 dei «massimi leader da indagare per crimini contro l’umanità». Tra questi, naturalmente, lo stesso Maduro e Tareck El Aissami, a lungo supervisore delle azioni del Sebin, i Servizi segreti del regime, e della Dgcim, l’intelligence militare.

Lo scorso 18 agosto il segretario generale dell’Onu, il socialista portoghese António Guterres, ha nominato l’italiano Gianluca Rampolla del Tindaro come Coordinatore residente dell’Onu Venezuela. La speranza è che il nostro connazionale riesca a fare quanto auspica l’avvocata Tamara Suju: «Andare nei sotterranei del Dgcim e del Sebin e verificare le condizioni in cui i prigionieri politici sono tenuti. E prima di andare a prendere un caffè a Miraflores (il palazzo presidenziale venezuelano, ndr), come usano fare di solito i funzionari Onu a Caracas».

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