Secondo analisi pubblicate da MIT Technology Review e Financial Times nel dicembre 2025, molte aziende stanno ridimensionando i progetti di intelligenza artificiale non perché la tecnologia abbia smesso di funzionare, ma perché hanno iniziato a farlo i conti. Il problema non è la potenza degli algoritmi, bensì la fragilità dei dati che li alimentano e un ritorno di valore spesso inferiore alle attese. Il MIT parla apertamente di fase post-hype, il Financial Times osserva come gli investitori cerchino protezione dal rischio di un indebitamento sempre meno sostenibile dell’ecosistema che ruota attorno all’IA. Tradotto: l’euforia non è finita, ma non paga più l’affitto.
Ogni tecnologia attraversa una stagione in cui promette di risolvere problemi non meglio identificati. L’intelligenza artificiale non fa eccezione. Per mesi l’abbiamo trattata come un coltellino svizzero capace di aprire qualsiasi serratura: produttività, creatività, decisioni, persino buon senso. Poi è arrivato il momento in cui qualcuno ha chiesto di vedere “l’ultimo numero in fondo a destra”. È lì che l’IA ha smesso di essere una narrazione e ha iniziato a diventare un progetto industriale, con tutte le sue noiose pretese: dati affidabili, processi coerenti, competenze diffuse.
Il punto non è che gli algoritmi siano improvvisamente diventati stupidi. È che hanno iniziato a riflettere fedelmente l’intelligenza delle organizzazioni che li usano. Dati sporchi producono risposte sporche, dataset incompleti generano decisioni miopi, archivi costruiti per adempiere a un obbligo normativo si rivelano inadatti a sostenere ambizioni predittive. L’IA non crea ordine dal caos: lo amplifica. In questo senso è uno specchio impietoso, ma onesto.
C’è poi la questione economica, che raramente fa notizia quanto una demo spettacolare. Addestrare, mantenere e integrare sistemi di intelligenza artificiale costa: in infrastrutture, in energia, in persone che sappiano governarli e non solo invocarli. Per anni si è dato per scontato che questi costi sarebbero stati temporanei e che i benefici, una volta superata la soglia magica dell’adozione, sarebbero diventati automatici. Oggi scopriamo che quella soglia non esiste o, se esiste, si sposta in avanti ogni volta che pensiamo di averla raggiunta.
La fase post-hype non è quindi una ritirata, ma un cambio di postura. L’intelligenza artificiale smette di essere una promessa di crescita infilata in un foglio Excel da esibire a un consiglio di amministrazione e diventa un attrezzo da lavoro, che funziona solo se qualcuno sa usarlo e soprattutto sa quando non usarlo. È un passaggio culturale prima ancora che tecnologico, e come tutti i passaggi culturali è lento, faticoso e poco fotogenico.
Forse è un bene; perché quando una tecnologia smette di promettere miracoli, inizia finalmente a fare il suo mestiere e il lavoro dell’intelligenza artificiale non è stupirci, ma aiutarci a capire meglio quello che già siamo. Il problema è che non sempre ci piace ciò che vediamo. Eppure, come accade con gli specchi, romperli non migliora l’immagine: la rende solo più difficile da ricomporre e per giunta ci regale sette anni di sfortuna.
