“Non so esattamente cosa sia successo, penso sia tragico. È terribile, non dovrebbe accadere. Non abbiamo ancora avuto alcuna prova, ma darò un’occhiata”. Con queste parole ha risposto Donald Trump ai giornalisti che, venerdì scorso, gli chiedevano come gli Stati Uniti avrebbero dovuto reagire all’avvelenamento di Aleksej Navalny.
Intervenendo poi sulla minaccia, avanzata dalla Germania, di congelare il progetto del gasdotto Nord Stream 2 – come reazione politica nei confronti Mosca – il presidente, pur dicendosi concorde, ha dichiarato: “Ma non credo che la Germania sia nella posizione di farlo in questo momento. Perché la Germania è in una posizione molto indebolita dal punto di vista energetico. Chiudono tutti gli impianti, chiudono il nucleare, chiudono il carbone, chiudono molti impianti”.
Insomma, differentemente da altri esponenti della sua amministrazione, il presidente americano non ha usato parole troppo dure nei confronti del Cremlino. Un fattore che mette chiaramente in luce come l’inquilino della Casa Bianca non abbia alcuna intenzione di abbandonare il suo vecchio progetto di una distensione nei confronti della Russia. Un progetto che Trump aveva annunciato già ai tempi della campagna elettorale del 2016, ma che – nel corso di questi quattro anni di governo – ha finito con l’incagliarsi, a causa di accese resistenze interne all’establishment di Washington. Basti pensare alla questione Russiagate che – risoltasi poi fondamentalmente in una bolla di sapone – è stata usata dagli avversari (democratici e repubblicani) del presidente, per coartarne la politica estera e boicottare così il disgelo con Mosca.
D’altronde, l’asinello è chiaramente intenzionato a cavalcare di nuovo l’accusa delle interferenze russe per quanto riguarda le presidenziali del prossimo novembre. Pochi giorni fa, la candidata democratica alla vicepresidenza, Kamala Harris ha dichiarato durante un’intervista: “Credo che ci saranno interferenze straniere nelle elezioni del 2020 e che la Russia sarà in prima linea”. Alla domanda se ritenesse che una tale interferenza potesse costare la vittoria a Joe Biden, la senatrice californiana ha replicato: “In teoria, ovviamente. Dobbiamo essere realisti, e io sono realista al riguardo. Joe è un realista al riguardo”. Del resto, nelle ultime settimane, anche altri esponenti del Partito Democratico sono andati all’attacco su questo punto, a partire dalla Speaker della Camera, Nancy Pelosi. E pazienza se, il mese scorso, il controspionaggio americano ha reso noto che la Cina speri in una vittoria di Biden a novembre o che – a luglio – l’Fbi abbia parlato di possibili interferenze di Pechino nel dibattito pubblico statunitense: al momento, per i dem, il grande pericolo continua ad essere l’ “impero del male” di reaganiana memoria.
Tutto questo, sebbene – come già accennato – l’inchiesta Russiagate non abbia prodotto grandi risultati. Il procuratore speciale. Robert Mueller, non è riuscito a provare alcuno sforzo coordinato tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino durante la campagna elettorale del 2016. E una collusione non è stata dimostrata neppure dall’ultimo rapporto sulle interferenze russe, pubblicato il mese scorso dalla commissione Intelligence del Senato. In tutto questo, non va neppure trascurata la controffensiva che Trump sta mettendo in atto sul Russiagate: numerosi documenti desecretati dalla fine dello scorso aprile hanno mostrato come, nella sua indagine sulle presunte collusioni con Mosca, l’Fbi abbia agito in modo significativamente opaco e – molto probabilmente – politicizzato.
Tra gli elementi emersi, uno dei più eclatanti riguarda proprio il dossier dell’ex spia britannica, Christopher Steele: fascicolo che non solo è stato finanziato dagli avversari politici dell’attuale presidente ma che soprattutto il Bureau – interrogando una delle sue fonti principali – scoprì essere un documento largamente infondato già nel gennaio del 2017. Ricordiamo che, per lungo tempo, questo dossier fu considerato il pilastro dell’impianto accusatorio del Russiagate; fu usato dall’Fbi per ottenere indebitamente mandati di sorveglianza ai danni dell’allora consigliere di Trump, Carter Page; e venne citato spesso per dimostrare presunti (e mai verificati) ricatti cui l’attuale inquilino della Casa Bianca sarebbe stato sottoposto dal Cremlino. Del resto, lo stesso impeachment che il presidente americano ha subìto a cavallo di dicembre 2019 e febbraio 2020 aveva sullo sfondo la questione russa: non dimentichiamo che, in quell’occasione molti funzionari (come l’ex ambasciatrice americana in Ucraina, Marie Yovanovitch) contestarono a Trump la sua politica di distensione nei confronti di Mosca. Da tutto questo, si comprende come – anziché contrastarlo sul legittimo piano politico – gli avversari interni del presidente abbiano cercato di boicottare il disgelo con la Russia attraverso progressivi (ancorché scarsamente fondati) tentativi di criminalizzazione. Tentativi che, almeno in parte, hanno funzionato, visto che la distensione di fatto non è mai riuscita granché a decollare.
D’altronde, al di là delle accuse di complotti e collusioni, Trump ha sempre cercato di aprire al Cremlino sostanzialmente per due ragioni. In primis, la volontà di stabilizzare le Medio Oriente, permettendo al contempo agli Stati Uniti di ridurre il proprio impegno militare diretto: in questo senso, il presidente americano guarda soprattutto al dossier siriano. In secondo luogo, Trump sta cercando di sganciare il più possibile la Russia dall’orbita cinese: un obiettivo che l’inquilino della Casa Bianca ha di fatto ribadito negli scorsi mesi, quando ha proposto di creare un G11 in cui ammettere – insieme a Mosca – anche India, Corea del Sud e Australia. Senza poi dimenticare gli attriti sotterranei che – nel corso della pandemia – si sono consumati tra Russia e Cina. Del resto, lo stesso Putin avverte la pressione dell’abbraccio soffocante con Pechino. Ed è in questo senso che, pur senza darlo troppo a vedere, lancia segnali di distensione nei confronti di Trump. Segnali che tuttavia una parte dell’apparato statale russo non gradisce più di tanto.
E’ quindi chiaro che, se dovesse essere riconfermato alle presidenziali del 3 novembre, Trump ritenterà probabilmente un disgelo con Mosca. Le opposizioni interne resteranno ma, questa volta, il presidente americano potrebbe contare su due punti di vantaggio non indifferenti: una posizione politica rafforzata dalla vittoria elettorale e un crescente astio della popolazione americana nei confronti della Cina a causa del coronavirus. La strada non sarebbe in discesa, ma il presidente avrebbe indubbiamente qualche carta in più da giocarsi. Il che presenterebbe ovviamente delle ripercussioni su vari fronti: una progressiva riduzione dell’impegno americano diretto in Medio Oriente e – con ogni probabilità – un accentuato disinteresse di Washington nei confronti dello scacchiere libico. Nonostante i campanelli d’allarme che proprio in Libia il Pentagono sta ripetutamente suonando rispetto alla presenza russa, non è che – ad oggi – Trump si sia lasciato troppo coinvolgere dalla questione. Venendo all’Europa, Trump potrebbe cercare un disgelo attraverso il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, anche se l’attuale crisi scoppiata in Bielorussia complica oggettivamente la situazione.
Dovesse invece essere Biden a conquistare la Casa Bianca il prossimo novembre, è abbastanza probabile che le relazioni tra Washington e Mosca saranno destinate ad irrigidirsi. L’ex vicepresidente ha spesso criticato Putin nel corso della campagna elettorale e – anziché cercare un disgelo con la Russia – è plausibile ritenere che un’eventuale amministrazione democratica ne cercherà uno con Pechino. Nonostante l’attuale retorica anticinese, Biden ha una storia politica – soprattutto da senatore del Delaware – di forte vicinanza nei confronti della Repubblica Popolare (soprattutto per quanto riguarda il fronte commerciale).
