Economia in frenata, tensioni sociali, elezioni imminenti e incerte. È una stagione di fragilità per l’Unione. Così il più politico dei tecnici, sempre al centro nelle partite globali, è di nuovo in gioco. E lo stesso governo di Giorgia Meloni potrebbe trarne vantaggi per l’Italia.
Glielo hanno insegnato al «Massimiliano Massimo»: la riflessione è indispensabile per mettere a profitto l’esperienza. È la pedagogia di Sant’Ignazio di Loyola: s’impara in quel liceo tutto fede, silenzio e rigore nella Roma di alto censo, ma di ancor più fermo corredo morale. Lì Mario Draghi adolescente – dolorosamente orfano e perciò ancora più bisognoso di certezze – ha formato la sua personalità. Ci s’immagina che l’imprinting dell’economista sia quello della Sapienza, di Goldman Sachs o del mitologico Mit di Boston: non è così. Il Whatever it takes, l’anatema quasi gridato in mezzo alla tempesta il 26 luglio di 11 anni fa per mettere al riparo l’euro dall’uragano del debito sovrano è il «todo modo» (costi quel che costi), il primo comandamento dei gesuiti. Riaffiora questa risacca di insegnamento etico e pratico insieme nell’unico italiano che può chiamare i potenti del mondo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Draghi tesaurizza ogni esperienza e sa che tre sono gli attributi indispensabili per comandare in Europa. Servono carisma, e pochi come lui sono in grado di persuadere tacendo, tecnica, e l’ex presidente del Consiglio – Grecia docet – fa ciò che si deve quando si deve, ma soprattutto è indispensabile l’analisi; servono i numeri. Pochi come Draghi li sanno produrre, interpretare e curvare. Per la «missione Europa» che si è data anche se non lo ha confidato a nessuno stavolta gioca d’esperienza e di numeri.
Ci sono nubi nerissime all’orizzonte della Ue: ora a soffrire non è la moneta, ma l’economia reale e i redditi dei cittadini e ci sono due scadenze decisive e ravvicinate: il 9 giugno 2024 oltre 400 milioni di europei voteranno per rinnovare i 705 parlamentari di Strasburgo e la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen è al capolinea; tra un anno scade il mandato di Charles Michel come guida del Consiglio europeo. Il primo è un ruolo esecutivo, il secondo è di assoluta preminenza politica: significa tenere uniti i 27 Paesi (o forse più vista la tendenza ad allargare i confini della Ue) dirigendone le scelte. Nell’un caso come nell’altro c’è una partita significativa da giocare sfruttando anche i sovranismi contrapposti di Francia e Germania. Mario Draghi lo sa bene, ma lo sa anche Giorgia Meloni. Le ultime uscite di «Mister Britannia», così lo chiamavano ai tempi in cui era direttore generale del ministero del Tesoro, riemerso dopo mesi di taciturne «riflessioni» sull’esperienze fatte a Palazzo Chigi e l’amaro calice della mancata successione a Sergio Mattarella lasciano presagire che Draghi prepari la campagna d’Europa.
Le cifre raccontano questo: Eurozona col Pil in calo dello 0,1 per cento (la Germania fa ancora peggio: -0,4 ed è in recessione conclamata), inflazione al 2,9, tassi d’interesse oltre il 4 per cento, disoccupazione al 6. A preoccupare sono le prospettive rilasciate da Paolo Gentiloni, commissario all’Economia: ben che vada la crescita non supererà l’1,2 per cento l’anno prossimo e Christine Lagarde – presidente della Banca centrale – ha detto che la massima concessione è lasciare i tassi invariati fino a giugno. Solo in Italia la stretta monetaria – nove rialzi dei tassi in 11 mesi! – è già costata a famiglie e imprese 70 miliardi di euro. Negli Stati Uniti il Pil cresce del 4,9 per cento, l’inflazione sta al 3,2, i tassi al 5,5, ma Jerome Powell, il capo della Federal Reserve, è intenzionato ad allentare e la disoccupazione al 3,9 per cento segnala che l’economia «tira». Per il 2024 la previsione prudenziale è di una crescita del Pil tra l’1,5 e l’1,9 per cento. Questi numeri atterrano in uno scenario di doppio conflitto (Ucraina e Palestina), di ormai evidente linea antioccidentale dei Brics – i Paesi emergenti – di possibile nuova crisi energetica con la Cina intenzionata a ingaggiare il duello finale con Washington.
Lo capirebbe anche un ginnasiale del «Massimo» che l’Europa è messa assai male. Ma ecco il carisma: se lo dice Draghi è vero ed è inutile indagare se chi oggi denuncia il problema ne sia stato parte. Data l’analisi, qual è la soluzione? Qui sta il capolavoro della Draghipolitik più importante oggi della Draghinomics: convincere che solo una direzione tecnica, ma confortata dall’appoggio politico, può compiere il miracolo. È lo stesso schema che Draghi ha proposto quando nel gennaio 2021 stava per salire a Palazzo Chigi. Telefonava molto e a molti, faceva circolare numeri attorno al Pnrr, si faceva forte dell’appoggio dei media.
Guardando a Bruxelles sta facendo la stessa traiettoria con una spinta in più: ha avvisato l’Europa che ha perso la battaglia della globalizzazione. Lo ha fatto in due circostanze. Il 6 settembre scorso sul settimanale Economist, che è come parlare all’America che conta e dove Draghi ha influentissime e altrettanto solide amicizie, ha scritto: «L’Europa deve darsi nuove regole… Va bene la severità, ma serve anche flessibilità». L’esempio? È quello di Joe Biden che finanzia le imprese mentre l’Europa mantiene l’ambiguità sugli aiuti di Stato. È poi un Draghi molto atlantico quello che con l’altrettanto influente Financial Times sostiene: «O l’Europa agisce insieme e diventa un’unione più profonda, capace di esprimere una politica estera e di difesa, oltre a quelle economiche… oppure temo che l’Unione europea non sopravviverà se non come mercato unico».
Il tema resta quello degli investimenti, del debito comune, dell’incremento di competività e di produttività. Peraltro Ursula von der Layen proprio a Supermario ha chiesto un’indagine sul perché l’Europa arretra. Riavvolgendo il nastro si scopre che questo Draghi non è diverso dal presidente della Bce che sconfisse il riottoso governatore della Bundesbank Jens Weidmann, convincendo prima il presidente francese François Hollande e poi la cancelliera Angela Merkel che serviva la misura d’emergenza del «quantitative easing». Non è diverso neppure dal Draghi presidente del Consiglio che punta sul Pnrr per dimostrare all’Ue che gli investimenti comuni sono l’unico modo per non far naufragare del tutto l’idea di un’Europa costruita a metà.
Anche lui ne porta la responsabilità: quando nel 1992, a bordo del panfilo «Britannia», convinse la finanza che l’Italia avrebbe privatizzato per entrare nell’euro, quando firmò – era lui il tecnico responsabile – il cambio pesantissimo lira-euro, quando s’esaltò per il vincolo esterno che si metteva all’Italia sapeva che la nuova moneta unica da sola non costruiva l’Europa. Lo sapeva così bene che nella sua tesi di laurea aveva scritto che la moneta unica era una follia. Ma oggi è il suo grimaldello per cambiare gli equilibri. Se il presidente francese François Mitterand volle l’euro – con relativi parametri di Maastricht – per sterilizzare lo strapotere economico del cancelliere tedesco Helmut Kohl – oggi Francia e Germania sono su fronti opposti: Parigi soffre per i vincoli della moneta del continente, Berlino ci si aggrappa. Draghi, facendosi forte del fatto che l’Italia rispetta le tabelle del Pnrr a dimostrazione che mettere in comune risorse è la strada maestra e serve una rilettura espansiva del patto di stabilità, può convincere l’Europa che è lui a doverla guidare.
Ha una congiuntura politica favorevole. Nell’Unione le spinte centrifughe dei Paesi dell’Est, il caos della Spagna, le difficoltà di Olaf Scholz in Germania (crisi economica e rissosità del governo) e quelle di Emmanuel Macron lasciano presagire che dopo le elezioni europee ci sarà un difficilissimo quadro politico. In Italia ha feeling con Giorgia Meloni – si è detto che lei segua l’agenda del suo predecessore – e i Draghi-boys hanno una posizione di rispetto del governo. Fabio Panetta neogovernatore di Banca d’Italia critica le scelte della Bce, posizione non sgradita né al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che, leghista, rientra nel perimetro degli amici di Draghi, né alla stessa presidente del Consiglio.
Dario Scannapieco dal vertice di Cassa depositi e prestiti è di fatto il braccio operativo nel sostegno alla struttura produttiva del Paese. Il governo con una legge di bilancio all’osso fa fatica, al di là del Pnrr, a sostenere gli investimenti e Cdp supplisce. Giorgia Meloni che guida l’Ecr – il gruppo conservatore europeo – dopo le elezioni europee può tentare l’alleanza con i popolari di Manfred Weber lasciando ai margini i socialisti del Pse e proponendo un presidente della Commissione non politico, ma che ha carisma, capacità di analisi e spessore tecnico. L’identikit di Draghi, appunto. L’Europa potrebbe così scoprire che esistono i governi tecnici!