All’Italia piegata dalla pandemia serve un potente ricostituente per ripartire sulla via della crescita. E Mario Draghi sembra la scelta migliore. La strada per questo «Ciampi boy» però è tutta in salita, anche se non gli mancherà l’appoggio dell’Europa. Che lo vuole in sella per spendere bene i soldi del Recovery Fund. Nel caso riesca davvero nelle riforme, sarà pronto per seguire le orme del suo mentore: ovvero, entrare al Quirinale.
Si stanno riposizionando anche i virologi da talk show. Massimo Galli è meno katanga nel trasmettere ansia, nessuno parla più di politica, le dichiarazioni rimangono dentro i binari della competenza sanitaria, Andrea Crisanti è scomparso. Il volume della radio si è abbassato, i turiferari di redazione sostengono che sia l’effetto Mario Draghi. «Le chat sono già piene di suoi compagni di scuola», twitta sarcastico Guido Crosetto per annunciare l’invasione degli adulatori. Tutto molto italiano, sono le conseguenze della nomina di un uomo che è gia un soprannome: Vitamina D, il ricostituente del Paese, che tra l’altro dovrebbe essere utile per combattere il Covid.
In attesa del cambio di passo è arrivato il cambio di stile, dal fish market al monastero di clausura. Per capire la riservatezza di Draghi bastano una fotografia rubata e due frasi. Lo scatto fece il giro del mondo: l’allora governatore della Banca Centrale Europea e la moglie Serena Cappello (antica nobiltà toscana) in un supermercato di Roma erano intenti a spingere il carrello con dentro i croccantini per il loro bracco ungherese. La prima frase è una risposta fuori da un seggio elettorale dopo il passaggio di consegne alla Bce. Presidente cosa farà adesso? «Chieda a mia moglie, spero che lo sappia almeno lei». La seconda è quel «Grazie, faccio da solo» che nel 2005 sussurrò nel salone d’onore della Banca d’Italia a un commesso che voleva aiutarlo a togliersi il cappotto.
Oggi sembra scolpito nella pietra: grazie faccio da solo. Una lontana malinconia per un uomo che ha perso i genitori quando aveva 15 anni. Una garanzia di autonomia e riservatezza, forse una minaccia agli apparati di sottogoverno. Ma anche un limite per chi ha bisogno di alleati nel mantenere la rotta verso i vaccini, la ripartenza economica, il Recovery Fund. Il Dragonball nato a Roma 73 anni fa, oggi passa attraverso ali di folla e redazioni plaudenti, ma non è un manga. Il futuro del Paese è una scommessa rischiosa per un governo tecnico come furono quelli di Lamberto Dini e soprattutto di Mario Monti, i due predecessori.
Il problema è sempre lo stesso: la mancanza di un paracadute, il passaggio diretto dall’«arrivano i nostri» alle lacrime e sangue. Nel 2011 la luna di miele durò tre mesi e quando Elsa Fornero smise di piangere in diretta tv cominciarono le faide. Ora la situazione è più propositiva, servono organizzazione, squadra da Champions league e relazioni spaziali non per tagli lineari (in teoria) ma per gestire 209 miliardi, 80 dei quali a fondo perduto. Non è un caso che all’apparire del nome di Draghi sulle labbra di Sergio Mattarella, lo spread sia andato a cuccia sotto quota 100 e gli euroburocrati abbiano tirato un sospiro di sollievo capace di far garrire le bandiere stellate dalla Lapponia a Creta.
La riserva della Repubblica era pronta dalla nascita ma il suo destino si è concretizzato a inizio anno quando il Colle, colti i segnali di impazienza di Matteo Renzi, di immobilismo di Nicola Zingaretti e di incapacità di manovra di Giuseppe Conte, ha deciso di formare il numero sul display del cellulare. Il civil servant per eccellenza ha detto sì, e se non ci fossero state le restrizioni sanitarie avrebbe portato a pranzo la moglie alla trattoria Nalin di Mira, la preferita della coppia, sull’argine sinistro delle acque del Brenta, per comunicarglielo. Poi si è messo in attesa di un destino già scritto, che comincia a palazzo Chigi e potrebbe finire al Quirinale. Perché è impensabile che una celebrità nel mondo dell’economia, anzi l’italiano più credibile del pianeta, abbia deciso di scendere nel gorgo della politica con la spensieratezza di un estemporaneo tuffo in piscina. Dentro un parlamento delegittimato e litigioso, nel mezzo di una pandemia, senza alcuna prospettiva per il futuro. Oltre che un valore, il senso di responsabilità talvolta è il primo passo di una lunga camminata.
Banca d’Italia, Bce, governo, Quirinale. È il cammino di Santiago dell’economista italiano prestato alla politica. Uno scenario simile a quello di Luigi Einaudi e soprattutto di Carlo Azeglio Ciampi, che da governatore della Banca d’Italia nel 1991 consigliò a Guido Carli – allora in cerca di un giovane funzionario per il Tesoro – di richiamare dagli Stati Uniti proprio Draghi. Quel ragazzo taciturno dal curriculum brillante si era laureato con Federico Caffè ed era entrato al Mit di Boston nello staff di Franco Modigliani. Dal premio Nobel aveva ascoltato la frase che oggi potrebbe essere il suo primo comandamento: «Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se avesse un sistema politico, amministrativo, sociale serio, l’Italia sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti anche agli Stati Uniti». Dentro ci sono la riforma della pubblica amministrazione, il ritorno alla politica del fare, le infrastrutture, la digitalizzazione. Tutto.
In buone relazioni con il centrosinistra riformista, per nulla ideologico, Dragonball ha forti aderenze anche con il centrodestra. Con Giancarlo Giorgetti ha un rapporto personale, qualche volta si è fatto scappare: «Se Salvini lasciasse perdere i no-euro…». Storicamente fu l’ex presidente Francesco Cossiga ad appoggiarlo (anche se non gli avrebbe mai perdonato gli anni da consulente di Goldman Sachs). È stato Silvio Berlusconi a volerlo alla Bce, a convincere Angela Merkel a sponsorizzarlo contro il parere della Bundesbank e dell’alta finanza tedesca. Per la cronaca va anche citato l’endorsement di Luigi Di Maio: «Ho incontrato Draghi e mi ha fatto un’ottima impressione». Bontà sua.
Uno scenario ideale per arrivare fino al semestre bianco e all’elezione del presidente della Repubblica nel 2022 mantenendosi in pole position, con un piano miliardario da implementare e intese politiche da cementare. C’è un indizio formidabile: la freddezza di Romano Prodi, competitor di ogni olimpiade quirinalizia da almeno 15 anni, che si è limitato a esprimersi in latino: «Ex malo, bonum». Se la strategia dovesse funzionare, un minuto dopo essere salito al Colle come inquilino Draghi manderebbe tutti alle elezioni anticipate. Chi ha frequentato i mondi spazzati dal vento del liberismo (pur regolamentato) sa che le prerogative del popolo sono come quelle dei mercati: non devono essere ingabbiate.
Trasformare una «classe digerente» in una classe dirigente, ecco la sfida di Super Mario nell’Italia postgrillina. È una partita a scacchi con le regole del poker ma può farcela; l’unico suo approccio online è peraltro qualche mossa a scacchi sotto pseudonimo. Avvezzo alle sfide, è riuscito a salvare l’euro con il «Whatever it takes» e a sostenerlo con il Quantitative easing. «Faremo di tutto perché l’euro resista e vi assicuro che sarà abbastanza»; nel luglio 2012 quando scandì la frase da generale Massimo Decimo Meridio anche lo squalo numero uno di Wall Street, Patrick Dempsey nell’ultima puntata della serie Diavoli, capì che era finita. E che quell’italiano rigoroso e gentile, lontano anni luce dallo schema spaghetti-mandolino, aveva vinto.
Sono stati anni duri e i tedeschi non se li sono dimenticati. Sperare che azzerino tutto senza usare il microscopio per valutare le sue mosse è una pia illusione. La Bild lo presentò così alla Bce: «Arriva quello della lira, la moneta con un numero infinito di zeri». La guerra fredda con Jens Weidmann si è conclusa solo quando ha lasciato il posto a Christine Lagarde. I media germanici non hanno mai allentato la presa e dopo un’onorificenza titolarono: «Merkel premia il massacratore dei risparmiatori tedeschi».
Eppure ce n’è uno che lo stima moltissimo, si chiama Joseph Ratzinger. Quando nel 2009 Benedetto XVI aveva pronta l’enciclica Caritas in Veritate sui risvolti sociali della crisi economica, prima di mandarla alle stampe volle che l’allora governatore della Banca d’Italia la leggesse. Il rapporto di Draghi con il Vaticano (da sempre viatico anche per il Quirinale), è ottimo. Papa Francesco lo ha ricevuto nel 2013 e l’anno scorso lo ha nominato membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. Il Santo padre ha un debole per chi ha studiato dai gesuiti e il nuovo premier ha preso la maturità al liceo classico Massimiliano Massimo, fiore all’occhiello romano dell’ordine religioso. Giancarlo Magalli, suo compagno di scuola, testimonia che «non era un secchione, gli piaceva anche giocare a basket e a calcio». Con due figurine ideali, quelle di Bill Bradley e di Francesco Totti.
Il programma è semplice, la teoria del debito buono («quello sul capitale umano, il resto è debito cattivo») è un messaggio ai giovani. Non c’è conferenza nella quale non ripeta la sua idea di domani: «Privare un ragazzo del futuro per un immediato ritorno politico è la più grave delle disuguaglianze». Poi passare dalla teoria ai fatti è sempre un’impresa titanica, soprattutto in Italia. Il benvenuto più sibillino glielo ha dato il Wall Street Journal. «Dai tempi della Brexit l’establishment politico dell’Europa guarda con nervosismo l’opinione pubblica italiana, abituata a pensare che la Ue fosse la soluzione ma ora convinta che l’euro sia il problema. Da europeista, mister Draghi proverà a persuadere gli italiani che i loro guai sono homemade». Fatti in casa, appunto. Per questo, altro che Vitamina D. Servirebbe la pozione magica di Asterix.