In Francia si avvicinano le presidenziali e l’attuale inquilino dell’Eliseo dovrà fronteggiare candidati inaspettati (e forti), a cominciare da Éric Zemmour della destra radicale, per una riconferma. Ecco che con il suo attivismo diplomatico, dall’Italia ai Paesi del Golfo, cerca di guadagnare vantaggi. E stringe accordi per miliardi di euro da far pesare al momento del voto.
Segnarsi la data del 10 aprile. Sarà il giorno in cui la Francia deciderà del suo futuro politico, dopo un lustro di macronismo. E i cui effetti si avranno potenti anche in Italia. Il 2022 è in effetti l’anno dei presidenti. Così come Roma deciderà i nuovi equilibri del potere – con la partita del Quirinale che inciderà sulla leadership europea e sul ruolo di kingmaker di Mario Draghi – anche Parigi si prepara a una réorganisation.
Oltre al presidente, che insegue un secondo mandato, in campo per la corsa all’Eliseo troviamo la solita agguerrita Marine Le Pen, stavolta però insidiata a destra da un’altra amazzone: la neoeletta leader dai Républicains Valérie Pécresse, considerata l’ala gollista e «moderata» della droite. A sua volta, la prima donna destrorsa a correre per la presidenza è tallonata dal giornalista indipendente Éric Zemmour, intorno al cui partito – dal nome assai evocativo di Reconquête («Riconquista») – si saldano le anime più irrequiete di Francia.
Tanto per capire, è stato lo stesso Zemmour a definire la propria area d’influenza: «Mi accusano di essere fascista, razzista, misogino: ma sono l’unico che difende le libertà». E non ha perso tempo a presentare il suo manifesto elettorale: «Il mio obiettivo è chiaro, immigrazione zero». Simbolo della destra radicale, il polemista Zemmour ha già incendiato le piazze, tra scontri e tafferugli ai suoi comizi e manifestazioni nella capitale contro la sua candidatura.
Così, dopo le convulsioni dei «gilet gialli», il perdurare del terrorismo islamico, l’implosione della sinistra (la gauche ancora non è pervenuta in queste elezioni), la partita si gioca tutta nell’area conservatrice-liberale di un Paese esausto e martoriato tanto dagli scontri sociali quanto dalla pandemia.
Con lo sgonfiarsi della destra lepenista e l’arrivo di nuovi capipopolo, al momento Emmanuel Macron resta dunque l’unica certezza per un Paese sempre più in crisi d’identità. I sondaggi lo danno per perdente, con Pécresse che sarebbe sotto di tre punti al primo turno (20 contro i 23 di Macron), ma che al ballottaggio potrebbe risultare vincente grazie proprio ai voti dell’estrema destra di Zemmour e Le Pen.
Mentre a sinistra, anche secondo il politologo francese Roland Lombardi, «non c’è affatto unità e tantomeno è emerso un candidato serio. Il loro miglior piazzato nei sondaggi, Jean-Luc Mélenchon, non è una seria minaccia». Quanto alla destra, «Le Pen è l’avversario ideale per Macron, che l’ha già battuta quando era al suo apice. E neanche Pécresse sembra poter vincere: perché l’elettorato centrista dovrebbe scegliere una “Macron donna” piuttosto che l’originale?». Riguardo a Zemmour, invece, la sua partita è già persa perché «non si vince da soli».
La flessione nel gradimento del presidente è dunque fisiologica, secondo gli esperti. Specie dopo che sono usciti i dati economici del 2020 che mostrano, dopo diversi anni di crescita moderata ma costante, come la Francia abbia registrato un calo dell’8,2% del Pil nello scorso anno. Ovviamente la causa è il Covid-19, che qui ha colpito particolarmente duro, e non tanto della strategia dell’Eliseo, che ha risentito sino a un certo punto del caos pandemico e delle proteste dei no-vax.
Molti dei suoi settori di punta – come l’industria militare e il turismo – sono stati i più pesantemente colpiti dalla crisi sanitaria, e così l’attività economica in Francia è scesa bruscamente nelle classifiche rispetto all’intera Ue (-6,1%). Tuttavia, già per la fine del 2021 il governo si aspetta un rimbalzo del 6%, dunque una crescita più accentuata che altrove in Europa. A fine 2020, intanto, il debito pubblico si è attestato al 113,5% del Pil e dovrebbe continuare a salire nel 2021, raggiungendo il 117,2% a fine anno, secondo le proiezioni.
La Francia ha finora messo sul tavolo quasi 500 miliardi di euro per superare la fase critica connessa al coronavirus ed evitare un’esplosione fuori controllo della disoccupazione. Obiettivo raggiunto, visto che il tasso di disoccupazione è rimasto stabile all’8,2% (in Italia era 9,2% a settembre). Ma non ancora garanzia di una pacificazione sociale che possa rasserenare le speranze dell’Eliseo.
La versione francese del «Whatever it takes» assunta da Macron potrebbe non replicare l’exploit del vero uomo forte d’Europa, ovvero quel Mario Draghi che ne ha adombrato la leadership nell’Unione. Proprio per questo, il presidente en marche ha voluto stringerlo a sé come alleato privilegiato, siglando il trattato di «cooperazione rafforzata» che, con il lavoro di tessitura di Sergio Mattarella, ha rinsaldato le altalenanti relazioni tra Francia e Italia.
Numerosi gli accordi bilaterali in quello che è stato battezzato come «Trattato del Quirinale»: politica europea e internazionale, difesa, sicurezza; e ancora, economia, industria, spazio, transizione ecologica e digitale, cultura, giovani. Il testo, che sarà sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti, è una mossa astuta e squisitamente politica da parte di Macron, che cerca alleanze forti perché sente la pressione in casa in vista di una riconferma: «Con l’Italia creeremo una visione geopolitica comune, condividiamo la visione europea e internazionale e puntiamo a […] una difesa europea comune più forte che contribuisca alla Nato». Rispondendo alle destre francesi, in conferenza stampa con il premier Draghi a Villa Madama, ha sottolineato invece: «Avremo una cooperazione rafforzata nella lotta contro le migrazioni illegali e i trafficanti, per proteggere le frontiere esterne dell’Europa».
Mentre gioca la sua partita politica in seno al Vecchio continente, però, Parigi cerca alleanze industriali altrove. E precisamente in Medio Oriente. Il recente tour di Macron nel Golfo persico è stato un successo indiscutibile: oltre al principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed al-Nahyan, ha incontrato l’erede al trono dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman Al Saud. La sostanza del viaggio, che ha toccato anche il Qatar, è nei molti contratti siglati per l’industria francese. In particolare, la commessa per 16 miliardi di euro che il gruppo francese Dassault Aviation si è aggiudicata negli Emirati Arabi Uniti. L’intesa – siglata lo scorso 2 dicembre – vale l’acquisto di 80 aerei da combattimento Rafale, che verranno utilizzati dai piloti della United Arab Emirates Air Force & Air Defense (addestramento compreso).
È di certo una buona notizia per il comparto della difesa francese, così come per i suoi principali partner: soprattutto Thales, che si occupa dell’ingegneria elettronica, e Safran, il grande produttore di motori d’Oltralpe. Ma è una buona notizia anche per le 400 aziende dell’indotto coinvolte e gli oltre 7.000 dipendenti del programma «Rafale Aviation», il cui peso nel dibattito per la ripresa dell’occupazione in Francia sarà rilevante. Soprattutto considerato che, secondo l’ex capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare italiana Pasquale Preziosa, gli aerei Rafale rispetto agli Eurofighter multiruolo «difficilmente avranno un futuro, perché non compatibili con le tecnologie delle altre forze armate».
Gli Emirati, però, si sono fidati di Parigi e hanno acquistato anche 12 elicotteri bimotore Airbus H225M Caracal per 3 miliardi di euro, che portano il valore dell’intera commessa a 19 miliardi di euro. Si tratta di un vero coup de maître per Macron: una lezione di politica estera messa a segno a pochi giorni dal Trattato di cooperazione Italia-Francia, grazie alla quale il presidente ha potuto porre Roma di fronte a un fatto compiuto, mostrando cioè come il «soft power» dell’Eliseo nell’intera regione mediorientale rimane consolidato. E come Parigi, rispetto a Roma, può giocare ancora un ruolo di prim’attore. Almeno, finché ci sarà Emmanuel Macron.
