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L’uomo che ha in mano la siringa del vaccino

  • Per vaccinare il Paese, Domenico Arcuri si è intestardito su un dispositivo «ad avvitamento» che costa 5 volte di più rispetto ai modelli standard ed è difficile da reperire. Così, sono praticamente sicuri i ritardi nella gigantesca impresa della somministrazione. Per il super commissario si annuncia il prossimo fiasco di una lunga serie.
  • L’uomo straordinario nei ritardi, nei flop e nelle promesse non mantenute

«Diciamolo, siamo stati straordinari». Il modo migliore per smontare chi ti critica è spiazzarlo; potrebbe averlo detto Sun Tzu o Vanna Marchi, sta di fatto che Domenico Arcuri, super commissario ai disastri, l’ha preso in parola. E ogni qualvolta 59,999 milioni di italiani (dalla ex compagna Myrta Merlino ci aspettiamo indulgenza) si apprestano a insultarlo per i vuoti organizzativi, le gaffe, i pasticci e gli intrighi, lui sale sulla cassetta di sapone e si incensa. Con l’aulica verbosità del funzionario borbonico, da dieci mesi giustifica i ritardi, minimizza i buchi neri, dispensa colpe agli altri. Dai tempi di reazione alle sollecitazioni della pandemia, si direbbe un bradipo. Ma proprio quando pensi di averlo inchiodato alle sue responsabilità, con l’agilità di Cassius Clay esce dall’angolo per rassicurare il popolo con l’improbabile «stiamo provvedendo».

Il dottor «Gerundio» sarebbe lo strepitoso caratterista di un cinepanettone se non fosse l’uomo che il premier Giuseppe Conte ha scelto per organizzare la controffensiva al Covid. Con risultati devastanti, non per il virus ma per i cittadini. Eppure l’Erwin Rommel della Terza repubblica, pur dopo una lunga serie di fallimenti sotto gli occhi di tutti (mascherine, respiratori, app Immuni, banchi a rotelle, bandi per le terapie intensive in ritardo, aerei in arrivo dall’Unione sovietica) è stato designato anche per la sfida più delicata: vaccinare un intero Paese. Importare, stoccare, distribuire il siero della salvezza.

A tempo perso, il gran visir di Invitalia – consigliato a Conte da Massimo D’Alema non si sa se per la fedeltà alla «sinistra di sistema» o per fargli uno scherzo – si occuperà del rilancio dell’Ilva, del decollo di Alitalia e dei progetti del Recovery fund con la task force dei 300 cervelli fantasma.

Nonostante la fiducia incondizionata del premier («Se lei ritiene di poter far meglio di Arcuri la terrò presente», fu la risposta arrogante a un giornalista), i dubbi sulle sue capacità fanno letteratura. Però nessuno si sarebbe aspettato, a metà dicembre, di trovarsi a gennaio con i primi 3,4 milioni di dosi ma senza siringhe. È l’ultimo paradosso, quello che fa dire all’ecumenico (anzi equivicino) Bruno Vespa: «Se arrivano i vaccini e non le siringhe potrebbe saltare la testa di Arcuri e anche quella di qualcun altro più in alto di lui». Per non far nomi, il ministro Roberto Speranza. Il rischio è concreto perché, mentre il vaccino verrà consegnato dall’Europa con una certa garanzia di efficienza, il bando del plenipotenziario del governo per «i dispositivi di inoculazione» è pasticciato fin dal primo minuto.

È il 26 novembre quando il supercommissario all’emergenza lo annuncia con il petto in fuori: «Abbiamo richiesto 157 milioni di strumenti tra aghi e siringhe per somministrare il vaccino, che sarà il momento di svolta per battere il virus». Subito le aziende sanitarie più attente colgono un «vulnus»: nel protocollo si richiede una testa di siringa di un tipo e il cilindro di un altro. Incompatibili, impossibili da far combaciare. A Roma l’ufficio complicazioni affari semplici corregge il bando ma i fornitori si rimettono le mani nei capelli: Arcuri vuole la siringa più introvabile del mondo. È la «luer lock monouso» che le nostre numerose teste d’uovo (Istituto superiore di Sanità, Comitato tecnico scientifico e Domenico Pasticcio medesimo) sembra ritengano «più performante rispetto alle siringhe standard». A differenza della luer lip, detta anche «tubercolina», la luer lock ha la connessione fra cilindro e ago non a pressione ma ad avvitamento. Una siringa coupé che non è facile reperire sul mercato e che costa 4/5 volte tanto quella standard (oltre 30 centesimi contro 8).

Spiega Gianluca Romagnoli, titolare della Pentaferte, azienda italiana leader nella produzione di dispostivi medicali che con la Pic Artsana approvvigionerà i centri vaccinali: «Non sono immediatamente reperibili perché di nicchia, la loro messa in produzione partirebbe tra due o tre mesi». Gennaio è dietro l’angolo e qui si parla come minimo di fine marzo per la consegna. È un problema di stampi da realizzare, di catene da montare. Una complicazione determinata dalla volontà governativa di non sprecare neppure un millilitro di vaccino, con il rischio di tenerne ettolitri nei frigoriferi per mancanza di siringhe. In Europa la luer lock non è prodotta da nessuno, infatti Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna hanno deciso di rimanere sul prodotto standard. La Pentaferte di Teramo sta già lavorando per il ministero della Sanità, ma è quello francese.

«Per fare lo stampo della siringa scelta dal nostro governo dovrò aspettare febbraio», è preoccupato Romagnoli. «Ci hanno dato 14 giorni per presentare l’offerta, a fine dicembre dovrei consegnare milioni di siringhe. Non si può lavorare in questo modo, tra l’altro la luer lock non è affatto più precisa di quella standard. Nel frattempo già ci sono importatori cinesi che stanno immettendo sul mercato prodotti di bassa qualità e a prezzo irrisorio».

Così l’ombra di Pechino torna ad allungarsi sulla Penisola esattamente come accadde in primavera ed estate per le mascherine. Con la preoccupazione che la fornitura monstre da 1,2 miliardi con provvigioni da 12 milioni per le società di Mario Benotti (ex consulente della presidenza del Consiglio con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni premier) possa avere una poco simpatica replica. Tutto il dossier dell’affare svelato da un’inchiesta de La Verità è sulla scrivania romana del pm Paolo Ielo (vecchia conoscenza di Mani Pulite) che indaga per traffico di influenze e ricettazione.

La vicenda siringhe non finisce qui, non passa giorno senza un colpo di scena. Messo alle strette sulla scelta di quelle costose e introvabili, Arcuri sfodera la sua mossa preferita: il passaggio all’ala. Il suo staff di comunicazione fa sapere che «le formulazioni sono determinate dal Cts-Iss in collaborazione con l’azienda produttrice e sono molto importanti, considerando che la differenza di costi è di pochissimi centesimi e non di sei volte tanto». Bisogna fidarsi, non stiamo parlando di un chilo di pane. Ma passa qualche ora e sulla dichiarazione si abbatte uno tsunami. Il primo a uscire allo scoperto è il Comitato tecnico scientifico: «Non siamo mai stati investiti da quesiti relativi a vaccini, siringhe e catena di distribuzione». Anche l’Istituto superiore di Sanità casca dal pero: «Mai coinvolti nella definizione delle specifiche sulle siringhe da acquistare».

Resterebbe il produttore del vaccino, Pfizer, come ultimo birillo traballante di questo strike micidiale a smentire Arcuri. Ma neppure l’azienda salva la cotonatura del supercommissario: «La somministrazione del nostro candidato vaccino richiede l’utilizzo di siringhe e aghi comunemente utilizzati nelle vaccinazioni». A questo punto l’unica domanda possibile è: chi ha consigliato ad Arcuri la siringa coupé? Qualcuno pensa a un intervento della Pic, società del gruppo Medical technology devices, storica produttrice di siringhe e concorrente italiana di Pentaferte. Ma si tratta di supposizioni, ombre, materiale volatile che Arcuri per magia riesce a creare attorno a sé a ogni mossa. Eppure una siringa nel 2020 dovrebbe essere come un bullone, funzionare e basta. Un concetto comprensibile sia per un «liberista da divano», frase usata dal supercommissario per bullizzare chi lo critica, sia per uno statalista da sofà come lui.

Gennaio è già adesso ma con questi presupposti l’operazione vaccino rischia di diventare più complessa dello sbarco in Normandia. Arcuri ha presentato il suo piano nel dettaglio: l’hub nazionale sarà l’aeroporto di Pratica di Mare, dove arriveranno i giganteschi aerei militari con le dosi e da dove partiranno per ogni Ats italiana velivoli, treni e autotreni con le celle frigorifere a meno 80 gradi. Che non sono in numero sufficiente. Nel distretto nazionale del freddo, a Casale Monferrato, le aziende sono pronte ad accelerare la produzione per non andare in affanno ma finora non possono che allargare le braccia: «Aspettiamo una risposta». È l’elogio della lentezza, è la rivincita di chi insisteva (come Guido Bertolaso) nella necessità di far tornare il dottor Gerundio alle sue scartoffie e coinvolgere l’organizzazione militare. Negli Stati Uniti lo hanno fatto ed è tutto pronto. Il generale Gustave Perna, ex numero uno della logistica della Us Army nominato da Donald Trump a capo dell’operazione Warp Speed, attende solo un ordine per cominciare a vaccinare 320 milioni di americani. «In tre mesi ho spostato 100 mila uomini in Iraq, che problema c’è?». Se qualcuno gli parla di siringhe più performanti, spara.


Straordinario nei ritardi, nei flop e nelle promesse non mantenute

L’uomo che ha in mano la siringa del vaccino
Straordinario nei ritardi, nei flop e nelle promesse non mantenute

Dalle mascherine introvabili ai grotteschi banchi a rotelle, dai tamponi impossibili per troppi cittadini alle terapie intensive poco attrezzate. Nel (non) gestire la crisi Domenico Arcuri ha superato se stesso. Come testimoniano i verbali ufficiali del Comitato tecnico-scientifico.

di Antonio Rossitto

Un conto sono le vanterie, puntualmente sconfessate dai fatti, di fronte a telecamere e taccuini. L’improvvisa notorietà può far perdere la trebisonda e Domenico Arcuri, quanto a egolatria, rivaleggia solo con il suo più sfegatato ammiratore: il premier Giuseppe Conte. Ben altro peso hanno invece le supposte verità assolute rivelate al Comitato tecnico scientifico: il sancta sanctorum della lotta all’epidemia.

È davanti agli esperti, una parola dopo l’altra, che il commissario straordinario all’emergenza ha certificato suo malgrado le molte promesse non mantenute. Leggere gli sterminati verbali del Cts, compilati in arduo burocratese, è impresa ostica ma illuminante. Le audizioni di Arcuri sono frequenti. Il boiardo chiede pareri. Ragguaglia sul suo incerto operato. Svelando così, seppur inconsapevolmente, la sequela di ritardi e omissioni.

A partire dalla scuola. Il suo nome è ormai indissolubilmente associato ai controversi banchi a rotelle e la mancata pianificazione dei trasporti. Ma c’è un altro tema che ricorre nei resoconti del comitato: i test sierologici a docenti e personale. Già lo scorso 22 giugno, durante la 90° seduta, lo stesso Conte chiede «un programma di screening prima dell’apertura dell’anno scolastico». Dell’incombenza si fa carico Arcuri, prevedendo una «futura gara per l’opportuno approvvigionamento di test diagnostici». Il 7 luglio annuncia dunque la «procedura di massima urgenza, per l’acquisizione e la distribuzione di 2 milioni di kit rapidi destinati agli operatori».

Un numero perfino sovrabbondante. Quasi il doppio di quanti ne servirebbero. Meglio così. Il 19 agosto, all’ennesima audizione, Arcuri promette che gli esami sierologici inizieranno il 24 agosto: tre settimane prima dell’inizio delle lezioni. Ma il 7 settembre si capisce che, ancora una volta, si procede a rilento. Altro che «massima urgenza». Manca una settimana dall’inizio dall’anno scolastico. Eppure, ragguaglia Arcuri, sono stati controllati solo in 360 mila su 1,2 milioni: poco più di un quarto del totale di insegnanti e personale. L’ultimo aggiornamento è messo a verbale il 18 settembre, con gli istituti riaperti da quattro giorni quasi in tutt’Italia. Il numero dei test, confessa Arcuri, è salito di pochissimo: 533 mila. Di questi, si compiace con i tecnici, solo il 2,53 per cento è risultato positivo. Ovvero, oltre 13 mila persone. Conclusione: oltre metà di docenti e non docenti è andato in classe senza aver fatto il test. Migliaia di potenziali positivi, quindi. E il conseguente rischio di contagio per le famiglie degli studenti. Tanto che, un mese dopo, i licei vengono chiusi. Seguono le seconde e le terze classi delle elementari. Ma perfino il presidente del Consiglio, il 22 giugno scorso, aveva ordinato di fare alla svelta. E stavolta la missione non sembrava nemmeno così ostica.

Del resto, perché stupirsi? Dell’«apertura in sicurezza delle scuole», testimoniano i verbali del Cts, si parla invano da mesi. È il 1° luglio 2020 quando Arcuri inizia a chiedere lumi sulla fornitura di banchi a rotelle: «Al fine di una puntuale azione di approvvigionamento». Il bando sarà pubblicato solo il 20 luglio. Il 19 agosto «il commissario informa che l’inizio della distribuzione comincerà il 7 settembre e si protrarrà a ottobre». Invece la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, informa che «la quasi totalità» è stata consegnata il 5 dicembre. In occasione dell’Immacolata. E a due settimane dall’inizio delle lunghe festività natalizie. Missione «quasi» compiuta, dunque. Per l’en plein bisognerà aspettare magari l’anno nuovo: a sei mesi dai primi annunci.

Ed è ancora dall’audizione dello scorso 19 agosto che viene fuori lo sconfinato scarto tra fatti e promesse. Il Cts insiste sull’impellenza di organizzare il rientro in classe. Come? Intanto, con la didattica a turni. Parole al vento. La scelta sarà imposta dal Dpcm solo il 18 ottobre, a oltre un mese dall’apertura delle scuole e dopo l’esplosione dei contagi. E poi, aggiungono gli esperti, è essenziale l’impiego di «strutture alternative esistenti, per le quali sono stati stanziati specifici fondi». Insomma: requisizioni, affitti, allestimento di tensostrutture e moduli provvisori con relativi adeguamenti. Un lavoro che sarebbe stato prezioso: per evitare contatti a rischio, classi in quarantena e il contagio di nonni e genitori.

Il comitato ribadisce pure la necessità di riorganizzare il trasporto: urbano, locale e scuolabus. Indicazione che resterà sempre sulla carta. Meglio concentrarsi sugli strabilianti banchi a rotelle. Intanto, già nella scorsa estate, i verbali del Cts testimoniano che l’arrivo della seconda ondata è una certezza. Mentre i governanti sonnecchiano, i tecnici avvertono: «I dati indicano una situazione che mostra una tendenza a un progressivo peggioramento. Persiste una trasmissione diffusa del virus che provoca focolai anche di dimensioni rilevanti, spesso associati all’importazione di casi dall’estero». Perché, a dispetto di ogni logica, le frontiere restano aperte? Una decisione catastrofica. Era così disdicevole chiedere di fare le vacanze in patria? Scelta che, tra l’altro, avrebbe sostenuto il turismo italiano.

A inizio agosto, tra i resoconti del comitato, spunta pure un report del ministero della Salute. Il titolo è già un programma, che ovviamente sarà disatteso: «Elementi di preparazione e risposta a Covid-19 nella stagione autunno-invernale». Bisogna dunque potenziare «in tempi rapidi» i posti letto in terapia intensiva e sub intensiva, c’è l’«urgenza» di trovare medici, serve rafforzare il tracciamento precoce e la diagnosi, urgono adeguati approvvigionamenti di dispositivi, test e ventilatori.

Tutto, come sempre, finisce in mano a Arcuri. Che il 7 settembre presenta al Cts la «massiccia campagna di prevenzione» per l’autunno. Per cominciare, s’impegna a raddoppiare il numero di tamponi: «Almeno 200 mila al giorno». Ma tre mesi dopo, visti i ritardi nei test, milioni di italiani sono ancora costretti a organizzarsi da soli: pagando di tasca propria, anche un centinaio di euro, un esame che lo stato avrebbe dovuto assicurare ai cittadini in tempi brevi.

Per non parlare delle terapie intensive. Il 12 ottobre un’indagine consegnata al Cts rivela che i posti in più sono soltanto 1.291: un terzo dei 3.500 finanziati. Colpa delle regioni inadempienti, replica tosto Arcuri. Perché, quando c’è di mezzo lui, la colpa è sempre di qualcun altro.

Indiscusso campione di scaricabarile. Lo dimostra la lettera inviata il 2 maggio scorso dal commissario al comitato, alla vigilia della fase due. Il manager pubblico, nominato il 17 marzo 2020, è già nell’occhio del ciclone. Come lui stesso ammette, ha ottenuto «qualche risultato, qualche critica, qualche critica, qualche dileggio». Eufemismi. Fino a quel momento, a parere quasi unanime, non ne ha azzeccata una. E ha appena comunicato urbi et orbi la distribuzione delle mascherine a 50 centesimi. Altro flop annunciato.

Stavolta però la colpa non è sua, spiega nel documento: «In questi giorni» polemizza «ho più volte sollecitato risposte alle richieste di parere su chirurgiche e dispositivi individuali oggetto di nostre forniture. Purtroppo, non ottenendo le risposte di cui avrei avuto bisogno». Il tono brusco sembra celare un sospetto: il pluridecorato consesso nasconde qualcosa. O, ancora peggio, mette i bastoni tra le ruote. La furibonda obiezione arriva il giorno dopo: il 3 maggio 2020. Le note del commissario «sono una delegittimazione» visti «i presunti ritardi imputati al Cts». Così la responsabilità di «un’eventuale mancanza di mascherine e dpi» sarà colpa degli esperti. Un’offesa inaudita. Tanto che «numerosi membri del comitato ipotizzano di rassegnare le proprie dimissioni».

Mentre contagi e decessi continuavano a crescere, loro se le davano di santa ragione. E restano turbolenti persino i rapporti tra il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, e i tecnici, seppur nominati dal suo dicastero. Il senatore dei Cinque stelle arriva ad accusarli in diretta tv: sono lenti, burocratizzati e al servizio della politica.

La replica viene messa a verbale lo scorso 7 ottobre: «Con queste affermazioni si è di fatto chiamato in corresponsabilità il Cts per ritardi, inadempienze, errori gestionali che non ci possono in alcun modo essere attribuiti».

Insomma, non è solo il governo a non andare d’accordo su nulla. Perfino i paladini della lotta al virus continuano ad azzuffarsi. Forse, anche questa è una spiegazione dei troppi indugi. E le controversie cominciano quando Arcuri fa recapitare al Cts le sue puntute osservazioni, estenuato dalle altrui lentezze. Ancora ignaro che, di lì a poco, sarebbe diventato l’eterno emblema dei pantani di Stato.

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