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Giggino O’ Globetrotter

Giggino O’ Globetrotter

Il capo della Farnesina vola in giro per il mondo a stringere mani e accordi. Ma in realtà la nostra diplomazia oggi non ha alcun peso. Ed è evidentissimo nella guerra ucraina, dove l’Italia è tagliata fuori da ogni vertice che conta e inserita da Mosca nella lista dei «Paesi ostili».


La felpatezza simil dorotea ostentata durante la battaglia per il Quirinale gli valse il plauso di giornaloni e commentatori. Luigi Di Maio era il più smagliante talento andreottiano odierno. A ridimensionare il generosissimo verdetto è arrivata però la sanguinosa guerra in Ucraina. Il ministro degli Esteri è così tornato lo spaurito e maldestro politicante già dileggiato nel 2017 durante una visita ad Harvard, perché senza «alcuna preparazione». La nostra diplomazia oggi non ha nessun peso. L’Italia è tagliata fuori da ogni vertice che conta. Mosca ci ha inserito nella lista dei «Paesi ostili».

Onore al merito: per indispettire gli invasori e relegarci all’ininfluenza, Giggino o’ globetrotter ce l’ha messa tutta. Comincia il 23 febbraio scorso, escludendo incontri bilaterali con i russi. Segue spietato dileggio di Sergej Lavrov, ministro degli Esteri del Cremlino: «Ha una strana idea della diplomazia. È stata inventata proprio per risolvere situazioni di conflitto e tensione, non per fare viaggi a vuoto o assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala». Di Maio non arretra. Qualche giorno dopo, sembra confondere uno studio televisivo con il Bar Sport della natia Pomigliano d’Arco: «Penso che tra Putin e qualsiasi animale c’è un abisso, e quello atroce è lui» prorompe a Di martedì con usuale congiuntivo malfermo. Insomma, mentre tutto il mondo pesa le parole e trattiene i respiri, il ministro definisce una belva il presidente russo.

Povera Farnesina. Passata da Alcide De Gasperi all’ex capo politico dei Cinque stelle. Prometteva già all’epoca, in effetti. «Renzi? Come Pinochet in Venezuela» scrive Di Maio a settembre 2016, riferendosi però al dittatore cileno. Due anni dopo, a Shanghai ribattezza il leader cinese, Xi Jinping: «Ho ascoltato con molta attenzione il discorso del presidente Ping». Va peggio a John Bolton, già consigliere di Donald Trump, rinominato Michael, indimenticabile autore di When a man loves a woman.

Come scordare poi il viaggio a Parigi per incontrare Christophe Chalencon, alla guida dei Gilet gialli che sognavano «la guerra civile»? O la sua passionaccia per il «lungimirante» Nigel Farange, il leader più euroscettico della storia? Oppure l’agognato referendum sull’euro? E la letterina inviata a Le Monde, in cui cita la «tradizione democratica millenaria» della Francia, risalente ahilui al 1789? Con i social pronti a infierire: «Passi il non studiare, ma nemmeno Lady Oscar!».

In virtù della sua indiscutibile competenza, l’ex premier Giuseppe Conte l’ha dunque voluto lassù: alla Farnesina. Visti gli strepitosi successi, Mario Draghi non ha potuto far altro che confermarlo. Fiducia ben riposta, altroché. Nei suoi due anni e mezzo alla Farnesina è riuscito a relegarci nel sottopalco del proscenio internazionale. Giggino ’o globetrotter, a dispetto del suo irrefrenabile girovagare, viene puntualmente escluso dai vertici strategici. Perfino quelli sulla Libia, nonostante l’Italia sia il primo paese di approdo delle ondate migratorie. Eppure, a dicembre 2019, non è invitato al summit londinese della Nato. Lo stesso capita un mese più tardi. A Baghdad viene ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani. L’allora segretario di Stato degli Usa, Mike Pompeo, poche ore dopo spiega le ragioni americane ai Paesi alleati: europei inclusi, italiani a parte.

Per non parlare dell’Afghanistan. Lo scorso agosto, mentre arrivano i talebani e cominciano i rimpatri di diplomatici e civili occidentali, il ministro viene immortalato su una spiaggia del Salento: costume blu elettrico, sorriso smagliante, occhiali a goccia. Si intrattiene sul bagnasciuga con due buontemponi: Michele Emiliano, governatore pugliese, e Francesco Boccia, ex ministro piddino. Quante risate. Finalmente, la concordia tra avversari politici sempre auspicata. Intanto, Kabul viene espugnata. L’opposizione chiede la seduta urgente delle camere. Ma l’attesissima audizione del ministro avverrà solo una settimana più tardi: il 24 agosto 2021.

Conclamata irrilevanza. Sbalorditive gaffe. Incidenti diplomatici. Il copione si ripete adesso, con la guerra in Ucraina. Dopo aver svillaneggiato il nemico russo, Giggino ’o globetrotter avvia quindi un vorticoso giro di visite, dall’Algeria al Qatar, per diminuire la dipendenza italiana dal gas di Mosca. Encomiabile, davvero. Peccato che, nell’ultimo decennio, proprio Di Maio e i grillini abbiano avversato qualsiasi investimento nel settore energetico, utile ad allentare il cappio russo. Così, l’Italia ora sarà costretta a riaccendere perfino le inquinantissime centrali a carbone.

I furiosi dinieghi pentastellati restano leggendari. A partire da quelli sulle trivelle. Il 25 gennaio 2019, per esempio. In Senato viene approvato l’emendamento che blocca 150 esplorazioni petrolifere in Italia. Di Maio, all’epoca vicepremier gialloverde e perfino ministro dello Sviluppo economico, esulta: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, all’Italia ci tengo, al mio mare ci tengo. Non ho alcuna intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo». Eh, no. «Chist’è ’o paese d’ ’o sole! Chist’è ’o paese d’ ’o mare!» cantano nella sua Pomigliano. «Puntiamo sulle rinnovabili» conferma l’allora ministro. Proprio mentre le aziende dell’eolico definiscono «deludenti» le sue iniziative.

Così, adesso non resta che sperare anche nel raddoppio della Tap, il gasdotto che dall’Albania arriva sulle coste pugliesi. Lo stesso che Di Maio e colleghi hanno sempre avversato come forsennati. Fino alla capitolazione, giustificata però dal fantomatico inganno, a ottobre 2018. «Ho studiato le carte Tap per tre mesi» riferisce uno spossato Di Maio. «Sono voluto andare allo Sviluppo economico anche per questo. Vi posso assicurare che non è semplice dover dire che ci sono penali per quasi 20 miliardi di euro». Ohibò. Colpa dei felloni che hanno governato prima di lui: «Quelli che sono andati a braccetto con le peggiori lobby del Paese» chiarisce. «L’unica cosa che ci dicevano è che eravamo nemici del progresso. Hanno blindato questa opera che resta non strategica e si poteva evitare». Ora però Manlio Di Stefano, fedelissimo dell’ex leader, dunque suo sottosegretario agli Esteri, rassicura festante: «Stiamo lavorando da oltre un anno al raddoppio della portata». Ma come? Non era un’opera inutile? E Di Stefano non è colui che, a dicembre 2013, occupava i banchi del governo per protestare contro il «dannosissimo e inutile» gasdotto?

Ah, giorni gloriosi quelli. Il blog di Grillo a cannoneggiare. Gli adepti schierati in Parlamento come un sol uomo. Non s’hanno da fare nemmeno quei rigassificatori, da Trieste a Gioia Tauro, che adesso ci permetterebbero di importare gas liquido. E ora Roberto Cingolani, che i grillini chiamano «ministro della finzione ecologica», ammette che, ottimisticamente, serviranno almeno due anni per affrancarsi dal giogo moscovita.

Un’eternità. Lui però aveva avvertito. Lo scorso settembre ricorda che «gli ambientalisti radical chic sono parte del problema». Andrebbe riconsiderato perfino il nucleare, aggiunge: «Si stanno affacciando tecnologie di quarta generazione, senza uranio arricchito e acqua pesante. I chili di rifiuto radioattivo sono pochissimi, la sicurezza elevata e il costo basso. È da folli non considerare questa tecnologia». Di Maio è stentoreo: «La bloccherei senz’altro». Adesso però anche Draghi apre alla proposta di Cingolani. E Giggino ’o globetrotter si vede costretto a mendicare gas in giro per il mondo. Mentre si ingozza, aggiungerebbe il mefistofelico Lavrov, «di piatti esotici ai ricevimenti di gala». n

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