Home » Attualità » Politica » L’Ilva torna ancora sull’orlo del fallimento

L’Ilva torna ancora sull’orlo del fallimento

L’Ilva torna ancora sull’orlo del fallimento

La decisione della Procura di sequestrare l’altoforno 1 fa schizzare gli operai in Cig a 4.000 unità, ma si può salire fino a 5.500. I 100 milioni in arrivo dal governo basteranno per appena tre mesi. E la trattativa con Baku steel, già in salita, rischia di saltare

Per chi da oltre un decennio segue le sorti degli stabilimenti dell’Ilva o ex Ilva come viene chiamata oggi, queste sono ore di tristezza. L’azienda è di fatto di nuovo sull’orlo del fallimento. La cassa è al limite. A giorni arriveranno 100 milioni pubblici che fanno parte del prestito ponte. Una boccata d’aria che per l’ex colosso dell’acciaio vale poco più di tre mesi di autonomia. Così da ieri la cassa integrazione tocca circa 4.000 operai, ma la richiesta è fino a 5.500. Praticamente la totalità della forza lavoro. Il tutto mentre su Taranto volano stracci di ogni tipo. L’altoforno 1 è finito sotto sequestro per motivi ambientali. I soliti motivi che armano le associazioni e la Procura.

L’azienda punta il dito e i magistrati rispondono a suon di note ricordando che le richieste di svincolo non sono pervenute. Burocrazia su burocrazia, che si aggiunge anche alle autorizzazioni ancora mancanti per il nuovo piano ambientale. «Quando mi sono recato a Taranto avevo sollecitato la messa in sicurezza degli impianti. Purtroppo l’autorizzazione è stata data troppo tardi per cui l’attività produttiva dell’altoforno 1 è compromessa e non c’è più possibilità di riprendere il livello produttivo che avrebbe portato alla piena decarbonizzazione degli impianti», ha detto il ministro Adolfo Urso Radio24 ieri mattina. «Questa mattina (ieri, ndr) i commissari incontreranno i sindacati per comunicare loro i necessari interventi per quanto riguarda la Cig visto che la produzione degli impianti dovrà essere significativamente ridimensionata e questo avrà impatti su produzione, occupati e sulla filiera dell’indotto così significativa nell’area di Taranto», ha concluso Urso. L’incontro c’è stato. E come ovvio è servito ad aggiungere tristezza alla tristezza di chi spera che l’Italia torni a essere un Paese in grado di avere una industria pesante. Gli stabilimenti di Acciaierie d’Italia oggi producono quasi la metà di quanto l’impianto mettesse sul mercato negli anni Sessanta. A partire dalla cacciata della famiglia Riva, sono stati fatti tutti gli errori possibili. La magistratura non ha mai preso in considerazione un fatto semplice. In Costituzione il diritto alla salute e quello al lavoro sono paritetici. Il primo non può mai avere la supremazia. Poi c’è stata la stagione dei grillini e per mera opportunità elettorale è stato cancellato lo scudo penale studiato appositamente per evitare che i nuovi investitori (all’epoca gli indiani di Arcelor Mittal) rispondessero di vecchi reati.

La scelta scellerata ha fornito l’assist ai nuovi investitori di portare avanti la loro vera strategia. Cioè, uccidere lentamente l’ex Ilva per favorire gli altri stabilimenti più produttivi e meno costosi. Per Arcelor perdere qualche decina di milioni (a braccetto con lo Stato) è nulla rispetto agli utili miliardari del gruppo. Così, quando l’attuale governo ha provato a rimettere assieme i cocci, non si è trovato alcun collante in grado di funzionare. A quel punto è di nuovo saltato il banco. Un nuovo commissariamento al quadrato. Più o meno quanto accaduto con Alitalia. Si è fatta ripartire la macchina ma al minimo dei giri e nel frattempo sono state avviate le consultazioni e le trattative per un nuovo partner. È stata scelta l’azera Baku steel. Con non pochi rischi. Ha dimensioni ridotte, ma gode di un vantaggio competitivo: costi dell’energia ribassati.

Perché a uccidere l’acciaio in Italia è proprio il costo insostenibile delle bollette. Prima del 2019 era il 25% in più della media europea. Oggi siamo ben al di sopra del 40%. Con tali valori non è sostenibile alcun piano industriale. Inoltre, il mondo va nella direzione della nazionalizzazione. Abbiamo visto la recente decisione della Gran Bretagna che ha ripreso il controllo di British steel. L’azienda era stata acquisita dalla Cina. Certo, adesso come ha sottolineato il Mimit la trattativa con gli azeri si fa ancora più difficile. Chi andrà avanti visto gli stop imposti dalla magistratura?

Anche se va detta una cosa. Le difficoltà con gli azeri erano precedenti. Tanto che si cercava nelle ultime settimane insistentemente di accoppiare un investitore industriale tricolore. Ma nessuno avrebbe risposto all’appello. E siamo di nuovo al punto di partenza. A meno che non ci sia un miracolo. Ma nell’industria i miracoli non sono certo all’ordine del giorno. Tanto più che l’ex Ilva non è la sola industria che soffoca. Rimanendo nello stesso settore c’è Piombino che boccheggia da anni. E adesso anche il sito della raffineria di Priolo è pronto a esplodere. In Sicilia lo scoppio della guerra in Ucraina e l’avvio delle sanzioni alla Russia ha imposto la ricerca di un nuovo socio. C’erano poche opportunità sul mercato. Ma ora il socio cipriota hanno rotto con il trader Trafigura. Servono altri soldi. O finisce la guerra nelle prossime settimane e ripartono i traffici con la Russia o anche Priolo sarà un’altra llva. Forse sarebbe il caso di rivedere le priorità industriali del Paese. E forse nel caso dell’acciaio varrebbe la pena cercare un consolidamento europeo. La Francia con Arcelor Mittal aveva problemi simili all’Italia. All’epoca si sarebbe potuto cercare una fusione tra aziende e Stati. Può sembrare un’eresia. Ma il resto del mondo è così competitivo che le dimensioni contano e da soli è difficile andare avanti.

© Riproduzione Riservata