Il progetto di polarizzare lo scontro tra Pd e centrodestra non sta funzionando. Il segretario dem scopre che sono più bravi quelli del terzo polo a farsi passare come eredi di Mario Draghi. Il rischio è perdere molti più sostenitori del previsto e quindi far sfumare l’idea del voto utile contro i fascismi.
Il tentativo di Enrico Letta di polarizzare lo scontro, ossia di presentare le elezioni come una corsa a due tra il Pd e il centrodestra, sembra essere fallito. Letta si è prima giocato la carta del pericolo fascista, spalleggiato da Repubblica, ma sono partiti troppo presto, bruciando l’argomento. Poi è andato sui media internazionali presentando la destra come un pericolo per la democrazia, per il bilancio dello Stato, per la tenuta dell’Unione europea, cavallo di Troia di Vladimir Putin. Una rappresentazione iperbolica, contrastata per gran parte dalle interviste assennate di Giorgia Meloni e dalla tranquillità dei mercati. Fallito anche questo espediente, Letta ha cambiato comunicazione puntando tutto sul manicheismo: da un lato i buoni, dall’altro i cattivi, cercando di recidere qualunque altra scelta tra Pd e centrodestra. Una strategia volta più a colpire Conte e Calenda che non Meloni, Salvini e Berlusconi. Secondo molti analisti, Letta si sarebbe rassegnato alla sconfitta poiché il divario tra la coalizione di centrodestra e quella di centrosinistra è troppo ampio e dunque l’unica carta da giocare per il Pd sarebbe quella di diventare il primo partito in termini di voti e seggi. Questo, in caso di una meno netta affermazione della destra e con eventuali divisioni tra Berlusconi, Salvini e Meloni, permetterebbe al Pd di lavorare su un altro governo di unità nazionale. Sondaggi alla mano però, questa convergenza elettorale sui democratici non si sta verificando. Tutti danno Fratelli d’Italia come primo partito e il Pd da settimane è inchiodato al 22-23%. Non solo, ma il Movimento 5 Stelle è dato in risalita, stabilmente sopra il 10%, mentre il terzo polo si assesta al 5-7%. Sono segnali funesti per Letta, che se si tradurranno in realtà segneranno il fallimento dell’operazione di polarizzazione oltre che la sconfitta elettorale. La strategia non funziona perché gli elettori di sinistra hanno compreso che la sconfitta è molto probabile, dunque perché rinunciare, per quelli che hanno un’altra preferenza primaria, ad esempio per Calenda o per Conte, per confluire sulla seconda opzione, cioè il Pd, ai fini del voto utile? Il voto utile rischia di non esserci e Letta di fare un risultato meno importante del previsto. Anche la intermittente evocazione di Draghi da parte di Letta potrebbe non sortire grandi effetti. Qui il segretario del Pd si muove nel campo del “vorrei, ma non posso”. Da un lato è costretto a piegarsi alle richieste di discontinuità della sinistra dei Bonelli e dei Fratoianni, dall’altro vorrebbe seguire il proprio istinto verso la prosecuzione del commissariamento della politica italiana. Tuttavia, Calenda e Renzi sembrano più efficaci nel presentarsi come eredi del metodo Draghi anche perché, al contrario di Letta, non erano alleati con il Movimento 5 Stelle che ha aperto la crisi di governo. Anche su questo fronte, dunque, la polarizzazione è scarica. Al fondo della questione c’è la domanda su cosa sia il Pd di Letta: il partito dell’establishment europeo e del commissariamento del sistema politico italiano? Una formazione socialdemocratica e ambientalista? Un partito moderato e centrista? Non è chiaro, perché il Pd sembra essere uno, nessuno e centomila. Lo si è visto anche nella impacciata gestione delle alleanze. Una impalpabilità di cui gli elettori sembrano rendersi sempre più conto.
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