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Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto»

Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto»

In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, il 23 maggio 1992, il celebre magistrato parla a ruota libera, come mai prima. E quello che emerge, dai contrasti con i colleghi alle critiche da parte dei (tanti) politici di allora, dalla mentalità degli «uomini d’onore» a come si combatte Cosa nostra, se si vuole farlo davvero, non solo è ancora terribilmente valido. Ma rende insopportabile tutta la retorica che, come sempre, ha travolto l’anniversario della sua morte.


Chi erano i suoi veri nemici? E chi ha tentato di cavalcarlo? In questa straordinaria confessione era lui stesso a rivelarlo. Stroncando le polemiche di oggi. Un giorno ho visto Leoluca Orlando, gli ho chiesto: come va? «Se tutto va bene» ha detto «siamo rovinati». È andato tutto bene. Giovanni Falcone era morto da cinque minuti, e si sentivano le prime fesserie. Prima lo accusavano di essere colluso con il potere: per questo, dicevano, non è stato ancora ammazzato. Ora gli stessi dicono: l’hanno ammazzato perché ignorava la pista politica, quella del potere. Stavo scrivendo un libro, anzi: lo sto ancora scrivendo. È un libro sulla storia del pool antimafia e della Squadra mobile di Palermo, Falcone e Ninni Cassarà. Si chiamerà I disarmati (Mondadori). Per un anno ho vissuto con i poliziot­ti e i giudici siciliani, e sono diventato vagamente sbirro. Ciò che segue è una piccola parte di quanto Falcone aveva da insegnare al tempo della sua battaglia contro il Csm e Antonino Meli, consigliere istruttore di Palermo. Per non ucciderlo due volte, mi piacerebbe che lo ascoltas­sero oggi. Formalmente, non esiste più un pool. Ci sono processi assegnati singolarmente, e basta».

«Perché?». Falcone alza le sopracciglia. «Perché c’è lui». Meli. «D’altra parte, il riflusso era ampiamente previsto. Buscetta mi disse: prima cercheranno di distruggere me, poi lei. Ma non credo che ci sia chissà quale disegno: non credo alla dietrologia. Mi sembra più semplice: c’è un’o­biettiva difficoltà a comprendere il nuovo. Le mie dimis­sioni nascevano da questo: se fare questo tipo di attività crea disturbo, tanti saluti. E quando si afferma che Borsellino dice sciocchezze, allora diventa anche un dovere morale. Quello che abbiamo fatto assieme non era niente di nuovo: era esattamente ciò che altri fecero in tema di terrorismo. Solo che qui c’era l’immobile clima siciliano. Non è vero che noi abbiamo fatto la differenza: è che nel Paese dei ciechi, beati i monocoli. E costretto a rientrare nei ranghi per­ché non ne ero mai uscito: questa è la realtà. Quando tutto viene sbricio­lato e Borsellino viene linciato, mi sono limitato a dire: fare il magistra­to non è un’investitura divina, né un fatto personale: se si creano le condi­zioni per lavorare, se le istituzioni garantiscono, vado avanti; se no, via.

«Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lot­ta antimafia. In questo, condivido una critica dei conservatori: l’anti­mafia è stata più parlata che agìta. Per me, meno si parla, me­glio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dico­no loro, non io. Non siamo un’epo­pea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi prima si lamentano per­ché non ho fatto carriera; poi, se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i 4/5 del tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criti­care: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al Pei, e via dicendo. Basta, non è serio. Lo so di essere estremamente impopo­lare, ma la verità è questa».

«Sono convinto che ci sia bisogno di una visione più duttile: non è tutto in bianco e nero. Quando si cominciò a lavorare sui Salvo, Rocco Chinnici voleva bruciare le tappe, e alla fine dei conti io risultavo quello che non voleva mai arrestare, che diceva: stiamo attenti, andiamoci adagio, vediamo la rete delle connessioni. Bruciare le tappe a volte ti fa andare indietro, io esorto tutti alla prudenza, non si possono affrontare questi problemi se non vi è una società che lo vuole. Ma tutto ciò non viene compreso, avviene il contra­rio: si azzerano i tentativi di andare avanti. Del resto, è già un enorme risultato essere ancora qui, anche se nel contingente non lo si nota. Si è gridato allo scandalo per le assoluzioni del Maxi-ter: trascurando i sei ergastoli con­fermati. Bene. Andate a prendere le sentenze degli anni Settanta, poi mi dite. Questi erano i padroni di Palermo, godevano di una sostanziale impunità; si è creata un’in­versione di tendenza. E nessuno ci ha potuto accusare di leggerezza, nessuno ha detto: aria fritta, panna montata. Al massimo, si è invocato un certo garantismo. Questi sono risultati. Non si potrà tornare indietro. L’importante è creare una struttura in cui nessuno potrà accusare altri di essere un centro di potere».

IL POTERE DI CHI NON HA POTERE

«Un altissimo magistrato, parlando di me, disse a Chinnici: riempilo di processetti, così non rompe. Il discorso del centro di potere è sbagliato nell’impostazio­ne: qualsiasi processo mi si dia, anche uno solo, mi consente di arrivare dovunque. E non perché io sia parti­colarmente bravo, ma perché le indagini sono così com­plicate che hai biso­gno del quadro generale. Io sono arriva­to al maxiprocesso con l’omicidio di Alfio Ferlito. Faceva parte di un gruppo della mafia catanese in opposizione a Nitto Santapaola, venne ucciso nel giu­gno ‘82 a Palermo: era la prova evidente che c’erano rapporti tra la mafia cata­nese e quella palermitana. Ma per in­quadrare un omicidio devi inquadrare i collegamenti, e allora diventano impor­tanti le conoscenze».

«Prima cosa, la zona dell’omicidio: Partanna. Mettiamo sotto controllo i telefoni dei personaggi locali, in parti­colare Riccobono. Cominciano a emer­gere i collegamenti: con Gaspare Mutolo, Domenico Condorelli, Domenico Russo. E soprattutto, viene fuori un traffico di stupefacenti di dimensioni straordinarie, che fa capo alla Thailan­dia, a Koh Bah Kin. Cominciano a esse­re arrestati i corrieri, e uno di loro, Francesco Gasparini, arrestato in Fran­cia, collabora: ci parla dei canali della droga a Palermo. Contemporaneamen­te, facciamo indagini sul Kalashnikov che ha ucciso Ferlito, e che allora era un’arma nuovissima: lo compariamo con altri episodi, l’omicidio di Inzerillo, di Bontade, la presunta rapina alla gioielleria Contino, il tentato omicidio di Contorno, l’omicidio Dalla Chiesa. Dalle perizie emerge che in tutti questi episodi è stato usato lo stesso Kalash­nikov, e per Ferlito e Dalla Chiesa se n’è aggiunto un secondo. A questo punto è chiaro che tutti i fatti vanno esaminati congiuntamente, sono legati uno all’altro, ed è chiaro anche come si crea il processo monstre: ma è l’unica maniera, altrimenti non cavi un ragno dal buco».

«È il fenomeno che è mostruoso e che comporta questi risultati: non sono io l’accentratore. Non l’ho inventata io, la mafia. Certo, se vogliamo dire che l’informazione è potere, va bene, il risultato è un centro di potere. Ma chiunque abbia un lavoro specializzato e lo sappia fare bene è un centro di potere. Il bravo chirurgo è un centro di potere, chi spegne i pozzi di petrolio è un centro di potere: più è sofisticato il bagaglio culturale, più diventi centro di potere. La garanzia, per me, è sempre stata il rispetto della legge: al maxi, non un’eccezione di nullità processuale è stata accolta in primo grado. Questa è la garanzia. Ma quale potere? Mi hanno offerto su un piatto d’argento un posto al Csm, e l’ho rifiutato. Questo è il centro di potere?».

Perché lo fa? Sorride. «Lasci stare». No, davvero. Perché? Guarda i monitor. C’è l’immagine in bianco e nero del corridoio oltre la porta blindata. Si vede un angolo di un tavolo, un uomo seduto. L’immagine trema leggermente. Dice: «Non mi piace parlarne. Nella migliore delle ipotesi, faccio la figura del retorico coglione. E allora, sono cose mie. Le tengo per me». E lei, cos’è? Luccica. «No» dice. «Niente giustiziere, niente missionario. E neanche mi sono mai posto il problema del potere. Anzi, il potere è una gran rottura di scatole». Lei ha potere? «Sì, come influenza. Il potere di chi è ritenuto esperto in determinati problemi. Il potere di chi non ha potere». Abbassa il tono. «Vede» dice. «Si rischia sempre di essere retorici». Cerchi di non esserlo. «Cosa vuole». Allarga una mano, la piega in bas­so, guarda la scrivania. Dice: «Sono i valori della vita. Si vede che i miei non coincidono con quelli della generalità».

Generalità. Vale a dire? «Chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire. Non si può chiedere perché. Non si può chiedere a un alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sa­pere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddi­sfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi». Fa una pausa breve. «Invece, aveva ragione lui». «Ayala (altro ex giudice del pool, ndr) non ha torto. Sono stato tutt’altro che contento dell’uscita di Bor­sellino. Mi fanno ridere quando dico­no che era una faccenda orchestrata tra me e lui. Anzi. Fu un problema». «Perché?». Allarga gli occhi, prende un’e­spressione didattica, di ovvietà. «Mi ha aumentato la conflittualità dell’ufficio».

Conflittualità. Apre la mano. «Nel momento in cui sollevi un grande problema di sostanza e non curi la forma, ti fottono, nella forma e nella sostanza. Borsellino, sotto il profilo umano, fece quanto di più generoso si poteva fare, e per questo ho sentito il dovere di stargli accanto. Ma dal punto di vista politico fu un grande errore. Solo la forza dei fatti ha impedito che lo schiacciassero. Nella grande amicizia, c’è una divergenza tra noi riguardo le tattiche. Il Csm non si è mai chiesto se i problemi sollevati da Borsellino ci sono o non ci sono. No. Hanno detto: non devi rivolgerti ai giornali. Attraverso la delegittimazione di Borsellino, volevano delegittimare anche me, trasformando il caso Borsellino-Meli in Meli-Falcone. Dire: ecco chi sono i paladini dell’antimafia. A quel punto, Borsellino diventa marginale: è importante dire: se Falcone ha sbagliato tutto, se se ne deve andare. Quello che, in teoria, il Csm avrebbe dovuto dire: in Sicilia va tutto bene, e tu Falcone te ne devi andare dalle palle». «Per questo, feci la lettera di dimissioni: solo esaltando ed elevando il livello dello scontro si poteva fare chiarezza, e questo si è rivelato fondamentale per non essere schiacciati. Altrimenti, sa­remmo stati costretti nell’angolo. Sarebbe venuta fuori un’antimafia d’accatto, Borsellino dice le bugie, e allora no: prendetevela con me. Vi dirò di più; mi sono rotto, me ne voglio andare».

«L’unica divergenza con Borsellino era sulla tattica: non mi piace andare allo scontro se non sono preparato. Lo dico sempre: che tu abbia ragione non significa niente. Devi avere alcuni che te lo dicono. Se ci scopriamo troppo spesso, ci bruciamo. È allucinante, ma è così. La mafia dura da decenni: un motivo ci deve essere. Non si può andare contro i missili con arco e frecce: in queste vicende certe intemperanze si pagano duramente. Con il terrorismo, con il consenso sociale totale, potevi permettertele: con la mafia non è così. Nella società c’è un consenso distorto. Altro che bubbone in un tessuto sociale sano. Il tessuto non è affatto sano. Noi estirperemo Michele Greco, poi arriverà il secondo, poi il terzo, poi il quarto».

Il CONIGLIO DAL CAPPELLO

«In un manoscritto sequestrato a Spatola c’è scritto: “La mafia non esiste, si chiama omertà. La vera mafia è quella dei giudici, che usano la parola mafia contro i deboli”. Questi concetti sono radicati nelle popolazioni del Sud. Amicizia, onore: sono valori censurabili? No. È un errore considera­re queste organizzazioni prive di ideo­logia. Se fosse così, basterebbero pochi drappelli di poliziotti. Come quando si parla di collaborazione dei pentiti: ma veramente credete che Buscetta venga fuori come un coniglio dal cappello? Esce perché riconosce lo Stato. Vede che gli può servire. Strumentalizza lo Stato? E allora, una donna violentata che denuncia gli aggressori, cosa fa? Strumentalizza lo Stato? Buscetta ha ottenuto dalle gabbie lo stesso silenzio, lo stesso rispetto di Michele Greco. Gli è stato riconosciuto che era la strada giusta. Quando Contorno dice a Greco “signor Greco”, gli ha fatto un insulto gravissimo. Doveva dire “don, su”, usare un termine di rispetto. Se non si capisce tutto questo, come si può pensare di fare dei passi avanti?».

«La mafia ha un’organizzazione ferrea: si deve basare su dei valori. Non sono i nostri, ma è miopia non vederli. Questo ci si ostina a non capire: sono uomini, non vermi­ciattoli. Li chiamiamo pecorai, ma sono il precipitato della saggezza siciliana: è gente che ti comanda con gli occhi. Una volta, un collega di Milano chiese a Buscetta, durante un interrogatorio: ma mi spiega come fate voi mafiosi a imporvi, a dialogare con tutti. Come con una bella donna, disse Buscetta: ti accorgi subito che ci sta. Prima devi capire questo, poi risolvi i problemi. Io sono tutt’altro che un missionario, ma questa è la realtà. La mafia è il segno di un’identità: per la Sicilia, per la nostra storia. Tutto sommato, il meno peggio che le poteva capitare. Noi abbiamo avuto 500 anni di feudale­simo, poi il totale disinteresse dello Stato; immaginia­moci se non ci fosse stata questa identità. La forte identità di un popolo può produrre questo frutto malato, perché diventa distorsione di valori: in questo senso, non è il tessuto canceroso sul tessuto sano, ma una malattia complessiva».

«L’amicizia e la famiglia, se diventano vincoli di clan, si trasformano radicalmente. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda perché una persona fa una determinata cosa, ma cosa vuole. Il senso della colletti­vità non esiste, c’è solo un sistema complesso e intrecciato di interessi privati. Del resto, che cos’è la mafiosità se non pretendere come privilegio ciò che ti spetta come diritto? L’organizzazione mafiosa in sé è un’altra cosa, e non tollera rapporti di subalternità a niente. Sopra Michele Greco non c’è nessuno. Quando si dice “il terzo livello” si equivoca su una frase detta da me; ma intendevo tutt’altra cosa. Avevo di­stinto i reati mafiosi in tre categorie: al primo livello, i reati d’ordinaria amministrazione, come estorsioni e contrabbando; al secondo, reati che servono ad assicurare la funzio­nalità interna dell’organizzazione, come l’omicidio di chi sgarra; al terzo, quelli che assicurano la so­pravvivenza dell’organizzazione nel suo complesso, gli omicidi eccellen­ti. Invece, ci si è riferiti a un fanto­matico terzo livello, intendendo una specie di vertice politico-finanziario della mafia».

GRANELLI DI SABBIA

«Non nego che ci siano rapporti con la politica, e possano esi­stere trame trasversali, ma pretendere che ci sia una sorta di strategia occulta, con un vertice che dirige la mafia dal di fuori, è sbaglia­to. Il mafioso non si sottopone a nessuno. Quando a Calderone offro­no l’iscrizione alla P2, lui si pone il problema: come faccio a giurare fe­deltà a due cose diverse? Rifiuta, perché per lui l’unico giuramento che conta è alla mafia. Un uomo politico può essere affiliato a Cosa nostra, ma solo se ha le qualità dell’uomo d’onore: altrimenti, non conta nulla. Quindi, il problema non è: ma come fa una banda di pecorai a dirigere imperi di miliardi, il problema è che la banda usa e strumentalizza tutti. Chiama Tizio, e gli dice: fa’ fruttare i nostri 30 miliardi. È una realtà semplice, e il collegamento che determina tra criminalità organizzata e criminalità dei colletti bianchi è esplosivo: ma è cosa diversa dal terzo livello. Non essere a contatto con la realtà porta a cantonate pazzesche. Quando si parla di mafia, si tende a oscillare tra due poli: o la si sminuisce, negandone l’unita­rietà, o la si descrive come un’organizzazione onnipotente, che comanda ogni cosa. In entrambi i casi, si impedisce una strategia seria. La realtà è grigia, non è né bianca né nera».

«Credo che le cose si facciano con i granelli di sabbia. Mi rifiuto di credere che Cassarà (capo della Mobile di Palermo ucciso dalla mafia, ndr) non sia servito a niente. Se i risultati li vogliamo tutti e subito, forse; ma non è così. Viene sempre il momento in cui devi pagare: più la cosa è importante, più il prezzo è elevato. Io lo sto pagando. Quando si dice che il pool non è mai esistito, si dice una cosa vera e falsa. Supposto che io sia Maradona, senza la squadra non ce l’avrei mai fatta. Se si pensa solo al tempo impiegato, alla fatica. Ma allora, se concorro per uno squallido posto di procuratore, si dice che faccio la primadonna. Se dico che me ne voglio andare, allora non ho il senso delle istituzioni. Se rimango a lavorare con il pool, faccio un centro di potere. Cosa devo fare? Qualsiasi cosa faccio viene immediatamente enfatizzata. Se parteci­po a una riunione con Orlando divento collaterale a Orlando, se mi invitano a un convegno del Pci, apriti cielo. Ritengo di fare un lavoro utile e arriva qualcuno e dice che non lo devo fare. Allora, cambio».

«Allora no, ti dicono di rimanere. Dico che voglio fare il calzolaio, e mi dicono di fare cappelli. Va bene, dico, faccio cappelli: allora non ho il senso delle istituzioni. Ricevo i gior­nalisti in un momento delicato delle indagini, sorrido; bene, Falcone sorride ironicamente, vuol dire che è in contra­sto con Di Pisa. Mi stanno bene le critiche se mi inducono a pensare: ma questa è solo volontà di bloccare».

«Tutta la vicenda con Meli è un segno di questo, la dimostrazione più chiara, emblematica, della scollatura tra magistratura e società. Era una vi­cenda personale, sono intervenuti fat­tori di opportunità politica, e di utilizzo di ambienti esterni, che hanno trovato utile sfruttare la questione personale. Faccio un esempio. Magistratura demo­cratica, che ha tre consiglieri nel Csm e quindi è in minoranza, ha sempre soste­nuto la necessità di criteri rigidi, privi­legiando l’anzianità, per limitare lo strapotere delle correnti e l’uso spregiu­dicato delle clientele. Quindi, quando si è posta la questione Meli-Falcone, ha votato Meli. Si è radicalizzato al massi­mo: da un lato la professionalità, dal­l’altro l’anzianità senza demerito. Si è sfruttata la caratterialità di Meli, ben chiuso nel suo particulare, e il suo senti­mento becero dell’amicizia, pensando: Falcone, scornato per lesa maestà, ab­bandonerà tutto. In commissione Anti­mafia, Meli mi ha rivolto accuse da manicomio a proposito dei Costanzo di Catania, e il Csm ha detto subito: bene, trasferiamoli entrambi, così si scanna­no tra di loro e tutto si blocca. Il tentativo era ridurre ogni cosa a uno scontro personale, misero».

«Oppure, come per la nomina dell’Alto commissario. Oltre a Sica, i candidati erano Parisi e Falcone. Me lo dissero amici, ministri, le fonti più diverse: ma non quelle ufficiali. Non venni informato di essere candidato. Ma si è mai sentito, un candidato cui nessuno dice nulla? Il giorno dopo la nomina di Sica, Gava dice: eh, non si poteva nominare Falcone, sarebbe stato andare contro il Csm. E poi, guarda un po’, con Sica si sceglie Riggio, e allora scopri che Riggio è il primo dei non eletti nelle liste Psi, stesso sponsor di Sica. È chiaro che, in un’ottica che non mi scandalizza, si è temuto che io fossi espressione del Pci, e che se si fosse proseguito su questa strada ne sarebbero venute grane al governo».

«Tutto questo ha un grado di corporativismo allucinan­te, di ignoranza totale della realtà, che porta a una concezione del magistrato assurda, per il Duemila. C’è il rispetto formale di una legge che andava bene in un sistema pluriclasse, in cui la classe al potere, liberale, poteva applicarla, perché le era funzionale. Subito dopo l’unità d’Italia, la legge era l’espressione di un lucido disegno, e il magistrato era espressione di quegli interessi. Oggi è espressione di tensioni diverse, e deve soggiacere a una serie di compromessi. Ci troviamo con una magistra­tura che ha abolito il sistema gerarchico piramidale, ed è stata una nobilissima battaglia, ma l’abbiamo sostituito con il nulla. Ora abbiamo una magistratura avvitata su se stessa, un’associazione di mutuo soccorso che è potere, non servizio. E allora, dite quel che volete della Cassazio­ne, di Carnevale, ma non è questo il problema. Dopo Carnevale, ne verrà un altro. Nel momento in cui la legge è mediazione tra gruppi differenti, esplode il problema, e il magistrato è costretto a scegliere: il vecchio è decrepito, ma il nuovo stenta. Allora ecco, basta che crei la situazione, e non ci si muove più. Nel mio caso, basta contrappormi un magistrato più an­ziano; basta che a livello politico venga agitato lo spauracchio comu­nista. Basta affermare che io sono uno sceriffo, che mi metto il codice sotto ai piedi. Non importa che tutto questo non sia affatto vero: il risulta­to è stato raggiunto ugualmente».

CORPO ESTRANEO

«I giudici hanno più paura di que­sto che della mafia. Per i miei colleghi, il solo pensiero di venir trasferiti, di andare a Milano, è la catastrofe. Quando dico che la no­stra è una società immobile, dico anche questo. Hanno più paura del Csm che della mafia. Il Csm può farti un provvedimento disciplinare, può trasferirti; la mafia ammazza solo quelli come me. In questa ottica, si fomentano le risse, ci si impallina. Il metodo non è diverso da quello ma­fioso: creare separazioni, operare sempre nell’ombra, non uscire mai con posizioni nette. In questo senso, io sono un corpo estraneo, in un ambiente che mi respinge: non me ne fotte niente, né della mafia né del Csm. Tutti devono sapere che non si possono fidare di me: nessuno mi può dare etichette. Ma beati i Paesi che non hanno bisogno di eroi: voglio dire dove le strutture non hanno bisogno di corpi estranei. Se si fa un paragone tra l’Fbi e la nostra polizia, tra una struttura media molto forte e una che esalta solo le grandi individualità, mi dite quale serve di più?».

Chi ha ucciso il pool? La volontà politica o le inerzie della casta? «Tutte e due. Le minori responsabilità le ha il potere politico». «È già un risultato che io abbia potuto resistere. Quante volte mi hanno detto, con la migliore buona fede: adesso puoi fare altre cose, stai diventando ripetitivo. È stata una lotta giorno per giorno. Quando ti ammazzano tutti gli amici più cari, per anni, resistere è un successo. Con Ninni (Cassarà, ndr) siamo andati a vedere il cadavere martoriato di Beppe Montana. Ninni mi disse: ma ci pensi che adesso all’Ucciardone stanno brindando, e noi siamo cadaveri che camminano? Tutte le volte che sono andato a vedere i cadaveri dei miei amici, i familiari mi dicevano: è stato inutile, io lo contesto. Ho sempre detto che queste persone hanno dato moltissimo, e rimarranno. Non è una dichiarazione di comodo. Se non ci si spersonalizza, se non si guardano le cose dall’alto, tutto sembra caduco. La differenza è quello che hanno fatto. Sì, certo, di loro ci si dimenticherà; tra dieci anni non si saprà chi era Ninni Cassarà. Ma il suo metodo resta. Prima, tutto questo succe­deva senza che se ne sapesse nulla: oggi, se non altro, devono scusarsi. Se gli studenti di Gela vengono ricevuti al Quirina­le, lui ha contribuito non poco. Non è un passo avanti gigantesco, ma prima si diceva: uffa, sempre di mafia si parla».

«Allora dicono: bene, facciamo Falcone paladino dell’antimafia, mettiamoci dietro 50-60 persone, creiamo l’asse Falcone-Orlando. Ma quando mai. A nessuno passa per la testa che io faccio il magistrato, e basta. È facile dire Lima bandito, Falcone galantuo­mo. Ma quando io dico che non è così, divento ambiguo. In realtà, è tutto più difficile, la realtà è più complessa. Ci sono persone molto peggiori di Lima, o di Gunnella: ma li hanno scelti come parafulmine, li usano per tutto ciò che c’è di negativo. Di fatto, non ci si vuole occupare di questi problemi, per­ché sono faticosi, difficili. Quindi Orlando è tutto il bene, Lima tutto il male, Gunnella assume i mafiosi, il Pei è l’unico buono. Ma perché? Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio. C’è un sostrato comune, tutto il resto viene dopo».

LA CULTURA MAFIOSA

«Che poi, il panorama non è granché mutato, dal Gattopardo a oggi. La supponenza, la spocchia, l’atteggia­mento di critica: chiunque fa, in questa infelicissima piaga, è condannato. Biso­gna star fermi. Anzi, star fermi dando l’impressione di grandissima attività. Tomasi di Lampedusa diceva: siamo un popolo di dei. Quello di Pavia non può capire, perché non è siciliano. Noi ab­biamo già visto tutto, sappiamo già tutto: ci siamo fermati qui. Tutto quello che c’è di nuovo lo devi incasellare, con un’operazione analoga a quella dei glossatori medioevali, che cercavano di adeguare le norme del codice giustinia­neo con l’interpretazione delle norme stesse: una forma farisaica di manipolazione della realtà».

«D’altra parte, in una società in cui lo Stato è assente, l’alto sentire di sé diventa un’identità, così come il rappor­to d’amicizia, il rispetto della fratellanza, del clan. Sono distorsioni, il problema è come vengono riempite. Io se devo spiccare un mandato contro un amico, forse proprio per amicizia me lo inculo di più. Ma quando diciamo che la mafia non è esterna alla società, diciamo proprio questo: è estremamente probabile incontrare soggetti coinvolti malgrado le tue intenzioni. Allora, hai due scelte: o ti chiudi in casa, con il rischio di non capire nulla di quello che succede, oppure vivi. Corri il rischio di incontrare persone non limpide. Ma non è questo il problema; il problema è creare un cordone sanitario. Anche perché è praticamente impossibile capire dove finisce la mafia e dove comincia l’appartenenza all’area culturale mafiosa».

«La più enorme cazzata è che per risolvere il problema ci vorrebbe l’esercito. E dov’è il nemico, dico io. Ecco perché è importante cercare almeno di delimitare i confi­ni: tutto il resto viene dopo. Noi abbiamo cominciato dieci anni fa, e siamo appena all’inizio. Dieci anni fa, queste persone erano i padroni di Palermo; oggi sono costrette a giustificarsi, a dire che non avevano capito, che non erano poi così amici di… Dieci anni fa, era impossibile pensarlo. In questo senso, l’atteggiamento di chi dice che lo Stato è sempre assente, che non provvede, è sterile, puerile, non fa progredire di un passo. Fare, non lamentarsi. Quando ci fu l’alluvione a Firenze, tutti presero badili e picconi. Diver­so è a Gibellina. Da noi, c’è la professione del terremotato, e in questo c’è tutta l’essenza del sicilianismo: vedere lo Stato estraneo per precostituirsi un alibi, per scusare la propria inerzia, per fare i propri comodi. Un atteg­giamento da Terzo mondo. Dopodi­ché, anche per me lo Stato può avere tutte le colpe immaginabili: ma il problema non si risolve rimanendo in panciolle. È quello che mi separa da Paolo Borsellino; lui ritiene di poter recuperare valori che per me sono obsoleti. A me non piace stare qui: non amo la Sicilia. Certamente, alla fine vivere a Parigi o in Sicilia è lo stesso: ma se mi consentite, a Parigi è meglio. Con tutto il rispet­to per i miei avi sepolti qui».

«Sotto il profilo personale sì, la mia esperienza è stata uno spreco. Totalmente fallimentare. Ma sono ottimista, e il problema è di non mettermi mai al centro dell’univer­so. Ho messo la mia pagliuzza, come tanti altri, vogliamo chiamarlo pro­gresso? Bon, diciamo progresso». Telefono a Falcone per salutarlo. Dico: «Buongiorno sono Luca Ros­si». «Io no» dice. L’ultima volta lo vedo all’Addaura, a casa sua. Una casa che ha affittato per l’estate. Ci sono due agenti in macchina al cancello; poi, una scala scende fino a una grande terrazza sul mare. Sediamo a un tavolo bianco, Falcone ha una Lacoste gialla. Beviamo whisky con ghiaccio. C’è caldo, l’aria nera del mare contro la luce bianca della luna, mobile sull’acqua scintillante di riflesso, con l’orizzonte chiaro e roton­do, libero al centro e ai lati fin dove possiamo vedere. La nuova moglie di Falcone siede in soggiorno, illuminata da una luce gialla guarda la televisione.

Seguo Falcone con facilità, ho meno timore. Ci siamo incontrati molte altre volte, sempre nel suo ufficio. Sedevo in corridoio, su una sedia di plastica appoggiata alla parete di fondo, e aspet­tavo che finisse di lavorare. Poi parlavamo un quarto d’ora, mezz’ora. Non c’erano finestre nel corridoio, e dal mio posto vedevo soltanto la porta blindata e il neon bianco. Una volta è arrivato Ayala, e Falcone ha preso la bottiglia di whisky, nascosta dietro a uno scheda­rio. Ha detto che l’aveva nascosta per difenderla da lui, da Ayala. Abbiamo riso e bevuto nei bicchierini da caffè. Il whisky aveva un sapore caldo e troppo forte, nella plasti­ca, ed era leggero in mano. Avevo una sensazione familiare, di condivisione: avrei voluto rimanere più a lungo, ritornare.

Ho pensato che loro erano una squadra, e ho ripetuto mentalmente la parola «squadra». Per la prima volta, mi sembrava che avesse un bellissimo suono; pensavo che mi sarebbe piaciuto far parte di «una squa­dra». Adesso abbiamo il ghiaccio nei bicchieri, che sono pesanti e ben bilanciati. Il tono di Falcone è liquido, soffice: arrotonda di più, s’impunta di meno sui silenzi, scivola via senza conseguenze. Anche il mio tono è facile, i gesti mi seguono con naturalezza; ci alziamo, guardiamo il mare, la notte. Dico che è bello, e Falcone dice che è stata una fortuna, trovare quella casa. La terrazza è bassa sugli scogli, a pochi metri dal mare.

Penso subito: la casa non è difendibile. Dico: «Non è pericoloso?». «Perché?». Indico il mare: «Potrebbero venire da qui». «Venga». Ci appoggiamo al parapetto. Falcone dice: «Buonasera». nVedo un carabiniere. Si gira, ripete «buonasera» con un tono leggermente indeciso, sottomesso. Ne vedo un altro, appoggiato agli scogli, con il mitra ste­so davanti. Hanno le divise nere come la roccia, la bandoliera bianca, guardano il mare. Il metallo delle armi non luccica.

UN ALTRO MARE

Due giorni dopo, è un altro mare. Sono sceso dalla nave a Genova, ho preso l’autostrada, ho lasciato la macchina a Paraggi e ho camminato verso Portofino. Il mare è, visto dal­l’alto, lontano e pulito. Ci sono sentie­ri ripidi che portano a piccole baie, quasi impossibili per dimensioni e chiusura. Non è ancora stagione, ci sono solo due ragazzi abbracciati su un asciugamano, e fa meno caldo che a Palermo.

Ho i calzoni di tela beige che mi sembrano leggerissimi, volano e sono freschi. Non penso a Palermo, penso solo alla leggerezza degli abiti, del tempo, della luce oblunga e blu della sera, della vacanza. C’è un profumo, passano poche macchine. Quando rientro a Paraggi è ora di cena, non c’è quasi nessuno. Mi fermo in un bar sulla spiaggia, respiro: ogni cosa è pulita e nitida, guardo la passerella lunga e verde che si stende sull’acqua, al centro della baia; una notte d’estate, molti anni fa, eravamo venuti da Milano su una Volkswagen gialla e ci eravamo tuffati all’infinito da quella passerella: mi ero svegliato sul muretto di Portofino, con il sole di mezzo­giorno. Il bar è vuoto, c’è un televisore acceso, con le notizie in bianco e nero del telegiornale. C’è l’immagine di una casa bassa, con una terrazza sul mare. La casa è ripresa dagli scogli, frontalmente: la speaker dice che c’è stato un attentato a Falcone, hanno trovato una bomba davanti alla terrazza di casa sua. All’Addaura.

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