In India si diffonde l’esultanza: la sua popolazione avrebbe già superato per numero quella della Cina, l’«acerrima vicina». E mentre gli occhi del mondo economico sono puntati sulla sua crescita (al Forum di Davos è stata in primo piano), il Subcontinente rimane un coacervo di contraddizioni, tra vaste sacche di miseria e tecnologie all’avanguardia, spinte verso l’Occidente e una democrazia ben lontana dal coincidere con l’equità sociale.
Dalle nebbie del post colonialismo a più popolosa potenza globale. Ecco la trasformazione cui stiamo assistendo oggi in India, tra luci e ombre che parlano di un’economia cresciuta ben più dei diritti e del benessere dei suoi cittadini, ma anche di un’ascesa quale nuovo «faro d’Oriente» della «più grande democrazia al mondo», in antitesi all’altro gigante, la Cina della dittatura comunista, da cui è divisa anche per cruciali ragioni geopolitiche.
Ufficialmente i dati sul numero di abitanti rimangono quelli malcontati del 2021: Cina 1,412 miliardi, India 1,408 miliardi. Ma iniziano a spuntare ricerche indipendenti (come quella di World Population Review) attestanti che il sorpasso atteso per aprile 2023 sarebbe già avvenuto contando 1,417 miliardi di abitanti. Non solo: secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, con il suo tasso di natalità (2,159 nascite per donna, contro l’1,28 cinese) l’India raggiungerà i 1,69 miliardi entro il 2050, staccando il Dragone.
Inevitabile guardarla con attenzione constatando che, insieme alle sue contraddizioni (una Costituzione «laica e democratica» convive con il sistema delle caste in cui è ancora divisa la sua società e un posizionamento infimo nella classifica mondiale sulla libertà di stampa e d’espressione) mostra chiari segnali di fervore intellettuale ed economico che la possono proiettare nella comunità internazionale quale Paese sempre più influente. Gli analisti la descrivono ormai come un «punto luminoso» dell’assetto economico-finanziario globale anche in ragione della «base solida» su cui poggiano i fondamentali della crescita indiana: con una previsione del 6,7 per cento nel 2023, un tasso molto elevato rispetto ad altri Stati membri del G20, e un potenziale di crescita del 10 per cento all’anno per un lungo periodo (questo mese registra un + 9,2 per cento).
L’Italia è tra i partner che seguono questa versione. Barbara Beltrame, vicepresidente per l’internazionalizzazione di Confindustria, afferma che «gli scambi commerciali tra le nostre due nazioni hanno raggiunto i 9,1 miliardi di euro nel 2019, classificando l’Italia come quinto partner dell’India tra i Paesi dell’Ue. Gli investimenti italiani in India ammontano a 6,4 miliardi di dollari, con una presenza di circa 700 aziende che impiegano più di 23 mila lavoratori. Aziende che rappresentano marchi d’eccellenza tra meccanica, automotive, infrastrutture, ferrovie, energia, tecnologia dell’informazione e trasformazione alimentare». Dunque, la scommessa è che l’India sia destinata a diventare nel medio termine «la prossima Cina». Eppure, per quanto i dati siano attendibili, resta un Paese molto distante dall’ingombrante vicino, e almeno su tre dimensioni fondamentali. Certamente, ha la demografia dalla sua parte e uno stato sociale in ascesa rispetto al Dragone, il cui calo delle nascite la condurrà entro il 2050 verso l’esplosione del rapporto tra anziani e persone in età lavorativa, che raddoppierà dal 35 al 70 per cento e metterà a dura prova il nascente stato sociale e il sistema sanitario nazionale.
L’India, invece, a quella data sarà stabilmente il Paese più grande del mondo, con – si diceva – 400 milioni di persone in più rispetto a oggi. Ragion per cui nei prossimi 35 anni, anche se la popolazione anziana aumenterà considerevolmente, il tasso di fertilità indiana rimarrà elevato. E questa sarà una risorsa fondamentale per l’economia globale. Mentre una massiccia popolazione in età lavorativa offre all’India «la possibilità di diventare il prossimo titano della crescita mondiale, il Paese dovrà lavorare sodo per tradurre la sua manna demografica in standard di vita molto più elevati per gli indiani medi» sottolinea lo scienziato politico australiano Geoffrey Garrett.
La chiave dell’ascesa indiana è la sua produttività economica, anche se – continuando nella comparazione con la Cina – si osserva che mentre Pechino ha costruito la sua fortuna su infrastrutture, investimenti e produzione, il Subcontinente ha appena scalfito la superficie di questi comparti. Le prime riforme economiche risalgono agli anni Novanta, dopodiché la sua economia si è relativamente indebolita, al contrario della Cina. Questo perché «la crescita cinese è stata trainata da alcuni dei più alti tassi d’investimento al mondo» analizza ancora Garrett. «Ciò a sua volta ha reso possibile sia una rivoluzione infrastrutturale di nuove città, linee ferroviarie ad alta velocità, aeroporti e porti, sia un muscolo manifatturiero che è stato l’invidia di tutti. La Cina è stata la fabbrica del mondo per vent’anni, grazie alla sua capacità di spostare in modo rapido ed efficiente ciò che produce». L’India, invece, è ancora oggi molto indietro su questi fronti. New Dehli investe circa il 30 per cento del suo Pil, rispetto al 50 per cento cinese, mentre la produzione rappresenta il 20 per cento dell’economia indiana, 10 punti meno del tasso cinese.
Ma aumentando gli investimenti e la produzione economica, e migliorando le infrastrutture, il sorpasso è possibile (l’India è stata in primo piano al recente World Economic Forum di Davos). Senza considerare che il suo settore tecnologico, dove si sono registrate le più interessanti innovazioni degli ultimi decenni (conta più «unicorni», le startup che hanno raggiunto una valutazione di almeno un miliardo di dollari, di Germania o Regno Unito), è ormai un punto di riferimento. Apple, che oggi assembla l’85 per cento dei suoi iPhone in Cina, ne sposterà la produzione: il 25 per cento entro il 2025, il 50 per cento in futuro. E l’attrattiva non può che crescere, con una forza lavoro giovane in aumento di 10 milioni l’anno per dieci anni. Una marcia in più rispetto a Pechino che spenderà moltissimo per adeguare il suo Welfare a una popolazione che invecchia.
Se dunque aumentano i segnali che avvalorano la tesi del sorpasso sul Dragone in futuro, è soprattutto dal punto di vista sociale che la democrazia indiana si fa interessante, rispetto a una Cina che rimane un regime. E questo ha vantaggi e svantaggi. «Quando il governo cinese vuole costruire una linea ferroviaria ad alta velocità» spiega il politologo australiano «acquisisce la terra e risarcisce le persone spostate. L’India invece sembra voler difendere lo status quo, o almeno impiegare molto tempo per prendere e attuare decisioni. Il dibattito pubblico è assai seguito e aumentare le entrate del governo per finanziare grossi miglioramenti infrastrutturali sembra essere politicamente troppo difficile».
Rimangono tante ombre: nonostante le impressionanti previsioni sul Pil a due cifre, la disoccupazione indiana è elevata, pari a oltre il 10 per cento nelle città, secondo il Center for Monitoring the Indian Economy. Di conseguenza, anche la disuguaglianza è peggiorata: Oxfam afferma che l’1 per cento più ricco dell’India possiede circa il 40,5 per cento della ricchezza totale. Ma il governo del coriaceo Narendra Modi ha puntato tutto sulla scalata sociale e sul miglioramento degli standard di vita della popolazione: per questo è stato confermato dal 2014 a oggi. Alcuni aspetti rimangono comunque critici. Per esempio, il suo Pradhan Mantri Awas Yojana (Pmay), il programma di «alloggi per tutti» lanciato nel 2015 – uno dei principali progetti di welfare del suo governo – arranca: a oggi sono state completate nelle aree urbane 1,2 milioni di case, 2,6 milioni nella parte rurale. Ma 4,2 milioni di case al di sotto dell’obiettivo. Lo stesso accade con le risorse idriche: l’obiettivo dell’agosto 2019 era di portare l’acqua potabile a 77 milioni di famiglie in più, ma solo in 17 milioni l’hanno ottenuta.
Questo modello punta a emancipare dalla povertà un’ampia fascia di popolazione per trasformarla in classe operaia e borghese, ma l’attuale realtà rimane cruda. Rahul Gandhi, nipote di Indira e leader dell’opposizione, a inizio settembre è partito dall’oceano Indiano con la «Marcia per unire l’India» ed è arrivato tra le nevi del Kashmir nei giorni scorsi. Voleva ascoltare i suoi compatrioti e la sua conclusione è che la polarizzazione, gli estremismi religiosi e l’odio sociale rimangono. «Ma non come li raccontano i media e il governo che li controlla, per distrarci dalle vere questioni: la povertà, l’analfabetismo, l’inflazione, la crisi post-covid dei piccoli imprenditori indebitati e dei contadini senza terra». Tutto questo fa dell’India una rivoluzione a metà, in bilico tra la sua condanna a restare Tigre di Carta e la voglia di riscatto: trasformarsi nella grande potenza del secolo appena iniziato.