Mentre discutono sulla necessità di riformare la giustizia, i parlamentari si fanno scudo volentieri dell’articolo 68 della Costitituzione… Che però viene utilizzato, spesso ingiustificatamente, per scampare da denunce o querele.
Questa riforma s’ha da fare. Con l’avvicinarsi della pausa estiva, nonostante guerra e pandemia, uno dei refrain più diffusa è la necessità «di riformare la giustizia italiana». Dal Pd fino a Lega e Italia viva non c’è un parlamentare che non sottolinei questa urgenza plaudendo – fatta eccezione per alcuni mal di pancia dei Cinque stelle – al lavoro della ministra Marta Cartabia. C’è però giustizia e giustizia. Perché se è necessario snellire i tempi dei processi per i comuni cittadini, è anche vero che c’è chi può sempre e comunque godere di un piccolo scudo che tiene al riparo da tutto (o quasi). Di chi stiamo parlando? Degli stessi parlamentari che chiedono di riformare la giustizia. Questa immunità è garantita dall’articolo 68 della nostra Costituzione: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». Due righe molto chiare e legittime.
Il problema, però, è che tutti i parlamentari, quando denunciati o querelati, finiscono per usare quest’articolo come uno scudo, con l’avallo determinante della Giunta per le autorizzazioni alla Camera e la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari al Senato (le due commissioni che si pronunciano su questi casi). Il risultato finale è che la cosiddetta insindacabilità dell’onorevole comportamento non viene mai messa in dubbio nonostante la legge dica chiaramente che ci deve essere «un nesso funzionale con l’esercizio del mandato parlamentare».
Uno degli ultimi provvedimenti approdato alla Camera riguarda la deputata dem Alessia Morani. La vicenda, poco nota, è piuttosto curiosa: è il 2017 quando la parlamentare, ospite del programma Matrix (su Canale 5), dà del «cretino» a un consigliere comunale di Lallio (Bergamo), Giacomo Lodovici, per una segnalazione di somministrazione di cibo e bevande (fette biscottate con marmellata) non autorizzata durante una manifestazione di bambini che era costata una multa alle stesse mamme. Al di là della vicenda grottesca, resta la querela presentata da Lodovici e l’inchiesta che ne è nata. Morani ha risposto sollevando l’insindacabilità delle sue dichiarazioni, alle quali però il giudice si è opposto ritenendo che «le opinioni espresse dall’imputata […] non rientrino nelle opinioni espresse e/o funzionalmente connesse nell’esercizio delle funzioni parlamentari».
Ora sarà la Camera a pronunciarsi: solo allora capiremo se dare del «cretino» rientra nell’onorevole attività. Non che al Senato vada meglio. A guidare il lavoro della Giunta delle immunità a Palazzo Madama è il forzista Maurizio Gasparri. È il 14 novembre 2018 quando i senatori «salvano» proprio Gasparri che era stato querelato per diffamazione da Roberto Saviano per un tweet del senatore azzurro («Cambiare canale, evitare Fabio Fazio che fa parlare il pregiudicato Saviano») contro la partecipazione a Che tempo che fa: la maggioranza della Giunta (col voto favorevole non solo delle destre ma anche del Pd) ha negato semaforo verde alla procura di Roma che, dunque, non ha potuto indagare il senatore. Per inciso, quello stesso giorno a essere «graziato» è stato pure l’ex senatore del Pd, Stefano Esposito, che era stato querelato dall’ex magistrato Livio Pepino: riferendosi alle molotov trovate dinanzi alla sua abitazione, l’ex parlamentare del Pd aveva addossato la responsabilità dell’atto intimidatorio nei suoi confronti proprio all’ex magistrato.
Pochi mesi più tardi (novembre 2020) il «recidivo» Gasparri è oggetto di convocazione della Giunta. Il forzista infatti viene nuovamente querelato per diffamazione dalla giudice Roberta Calzolari perché, durante il lockdown, aveva contestato i domiciliari concessi a Domenico Perre, uno dei rapitori nel 1997 a Milano dell’imprenditrice Alessandra Sgarella: «Ma questa Calzolari in che mondo vive? Cosa aspetta il Csm per radiarla dalla magistratura? Chiedo pubblicamente che il Csm la cacci su due piedi».
Ad aver collezionato varie querele e a essere stato sempre «scudato» è anche il senatore Michele Mario Giarrusso, eletto nel Movimento 5 Stelle e ora con Italexit di Gianluigi Paragone: si contano nel corso della legislatura quattro «richieste di deliberazione in materia di insindacabilità»; in tutti i casi la Giunta ha riconosciuto un nesso tra dichiarazioni rese, sui social o in interviste, e ruolo parlamentare. D’altronde nell’età del web, bisogna stare attenti a commenti e post. A essere stato «graziato» è stato per esempio il dem Emanuele Fiano, «reo» di aver vergato, nel marzo 2016, il seguente post sul Movimento 5 stelle: «Si spiano con € dei contribuenti, decidono a casa Casaleggio, nessuno sa chi o cosa e parlano di democrazia? La faccia come il culto».
Il commento seguiva la notizia secondo cui la posta elettronica dei parlamentari pentastellati veniva spiata 24 ore su 24 dalla Casaleggio associati, notizia poi rivelatasi non veritiera. Da qui la denuncia di Gianroberto Casaleggio. Stessa sorte per la deputata Enza Bruno Bossio, anche lei del Pd, che aveva definito sui social il gestore di un centro per migranti «er Buzzi de noantri». L’usanza, a quanto pare, sembra essere sempre lo stesso.
Uno degli ultimi casi che ha toccato il Senato riguarda il senatore leghista Stefano Candiani, sott’inchiesta della Procura di Catania per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, per via di alcuni post in cui parlava del rione San Berillo come la «patria dell’illegalità», un «quartiere in mano agli immigrati clandestini», dove «regnano spaccio, contraffazione e prostituzione». Candiani si è giustificato con la Giunta, che ha riconosciuto l’insindacabilità, sostenendo che il 5 e 6 luglio 2018 si trovava a Catania per incontri istituzionali e politici, nella duplice veste di sottosegretario all’interno e di commissario regionale della Lega Sicilia.
Esattamente come capitato al meloniano Giovanni Donzelli: dopo la querela sporta dall’associazione Sinti italiani, per alcune dichiarazioni del deputato sul campo nomadi di Prato, la Giunta ha deliberato di recente riconoscendo che «ai fatti oggetto del procedimento si applichi il primo comma dell’articolo 68 della Costituzione». Dunque l’insindacabilità. All’appello, però, non mancano neanche i 5 Stelle «doc». Anche con nomi di primissimo piano. Uno su tutti? Luigi Di Maio. Sono state depositate in questa legislatura due «richieste di deliberazione in materia di insindacabilità» che lo riguardano, su cui non risulta che la Giunta si sia ancora pronunciata. Si tratta di querele presentate da una giornalista in un caso e da una società nell’altro. Scommettiamo come andrà a finire?