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Il G7 ha deciso la tassa unica e fatto capire che Draghi serve al Colle

Il G7 ha deciso la tassa unica e fatto capire che Draghi serve al Colle

I grandi hanno trovato l’accordo per imporre l’imposta minima del 15% alle multinazionali. Ma dietro la trattativa ci sono le tensioni per il futuro assetto del potere Ue. Immaginare un Draghi più politico, costretto a correre i rischi delle forche caudine dei partiti italiani ed europei non è ideale. Al contrario, c’è chi lo proietta verso il Quirinale. Un posto dove avrebbe la possibilità di fungere da anello di congiunzione tra Stati Uniti, Europa ed Italia.


Il G7 ha trovato l’accordo per la tassazione minima globale sulle mega aziende del digitale. In un quadro di ridefinizione dell’economia globale, dove gli Stati assumono tratti maggiormente interventisti e protezionistici, si raggiunge l’accordo tra i grandi Paesi dell’Occidente per una imposizione minima al 15%. I colossi come Google e Facebook non si sono dichiarati contrari al provvedimento poiché ci sono in gioco questioni reputazionali e soprattutto di scambio tra maggiore imposizione fiscale ed un atteggiamento più morbido delle autorità per la concorrenza. Meglio pagare qualcosa di più che finire spezzati per legge sul piano proprietario. Per altro applicare la decisione non sarà semplice poiché bisognerà convincere molti altri Paesi inclusi quelli, come Irlanda e Cipro, che fanno della base imposizione sulle società una ragione di strategia e sopravvivenza economica. Ciò vale per l’Europa e per il resto del mondo e dunque la decisione non è la mannaia sul big business che alcuni pretendono possa essere. Tuttavia, Joe Biden ha deciso di venire incontro alle richieste dei grandi Paesi europei che da lungo tempo miravano a un provvedimento globale oltre che continentale. Ma questo G7 importante sul piano simbolico è stato anche l’ultimo dell’era Merkel. La Germania che la cancelliera lascia è più egemone in Europa, ma anche più debole nel mondo. L’era del Covid ha accorciato le catene del valore penalizzando l’industria tedesca, gli sviluppi di lungo periodo sul piano geopolitico hanno portato Berlino più vicino a Mosca e Pechino che agli Stati Uniti. E sul piano politico interno il futuro è incerto. L’erede della Merkel non c’è, la Cdu è in caduta nei sondaggi. Il dibattito che si è aperto in Germania sul ritorno del Patto di Stabilità nell’Unione europea – sollecitato dal leader della Cdu Laschet e dal presidente del Bundestag Schauble, dimostra come la partita del voto parlamentare in autunno sia tesa. I Verdi insidiano il primato della Cdu, ma tutti gli scenari restano aperti tra cui coalizione centrista fondata sull’alleanza Verdi-Cdu, grande convergenza Verdi-partiti di sinistra e una balcanizzazione parlamentare difficile da gestire dovuta magari all’exploit del partito di destra Afd. Comunque vada a finire, la Germania dovrà fronteggiare mesi di transizione e discontinuità politica. In questo interstizio temporale chi sarà il riferimento in Europa? Sia per i tedeschi che per il resto del mondo ci sarà la Francia, la seconda potenza. Ma anche Macron andrà al voto nella primavera del 2022 e la campagna elettorale è già partita. Ci sono poi le “figure di sistema” nell’Unione Europea, quelli che occupano posizioni apicali nelle istituzioni come Ursula Von Der Leyen e Christine Lagarde. Ma nessuno è al contempo un uomo di sistema del mondo euro-Atlantico e capo di governo di un grande paese come Mario Draghi. È evidente che nella grande transizione tedesca Draghi sarà un riferimento. Il Presidente del Consiglio è un alleato leale di Berlino, ha seguito la Cancelliera sulle politiche di approvvigionamento dei vaccini, ha contribuito al disegno dell’attuale assetto finanziario europeo e garantisce con la propria autorevolezza il buon uso delle risorse economiche destinate all’Italia. Inoltre, Draghi sa bene quanto il rapporto industriale Italia-Germania sia profondo ed interdipendente. Pur mantenendo eccellenti rapporti con la Francia, ma senza cedere alla finanza parigina che mira a banche e assicurazioni italiane, a Palazzo Chigi c’è la consapevolezza di fondo che il rapporto privilegiato sia con Berlino. Ma anche Draghi non è eterno e avrà bisogno di tempo per relazionarsi col nuovo ordine tedesco. C’è chi, per questi motivi, lo vede a Palazzo Chigi fino al 2023 e poi eventualmente come Presidente della Commissione europea nel 2024. Un Draghi più politico, dunque, costretto a correre i rischi delle forche caudine dei partiti italiani ed europei. Al contrario, dall’altro lato, c’è chi lo proietta verso il Quirinale. Un posto sicuro, dove per sette anni avrebbe la possibilità di fungere da anello di congiunzione tra Stati Uniti, Europa ed Italia. Senza dimenticare che un Presidente della Repubblica di tale peso avrebbe l’opportunità di monitorare ed indirizzare il Recovery plan anche senza sedere nelle studio di Palazzo Chigi. Inutile sminuire il ruolo del Capo dello Stato, che è sempre più centrale e decisivo nel sistema italiano. Se si vuole assicurare la continuità con l’esperienza di questo governo è sul Colle che Draghi va spinto. Avrebbe davvero qualche senso per il sistema politico italiano giocarsi la carta Draghi soltanto per l’ultimo anno di legislatura che per altro coincide con la campagna elettorale? Nulla assicura che nel 2024 ci siano le condizioni politiche per spendere a Bruxelles il nome dell’ex presidente della Bce. Inoltre, quanto potrà fare Draghi nel 2022 sul piano delle riforme è difficile a dirsi, ma è certo che i partiti inizieranno a sgomitare maggiormente per difendere i propri consensi. Insomma, negare la Presidenza della Repubblica a Draghi equivarrebbe ad un “usa e getta” da parte dei partiti nei confronti del Presidente del Consiglio che il paese non può permettersi. Al Quirinale, invece, avrebbe il tempo e gli strumenti necessari per continuare ad essere il primo alleato della Germania ed uno dei grandi tessitori della politica europea. Certo probabilmente si voterebbe nel 2022 invece che nel 2023, ma gran parte delle linee del futuro piano economico italiano sono già state tracciate proprio dall’attuale presidente del consiglio.

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