Con gli Stati Generali,Giuseppe Conte poteva inaugurare un nuovo corporativismo, capace di raccordare produttori, sindacati e settore pubblico. Non è andata così poiché l’iniziativa del Presidente del Consiglio si è risolta in una parata personale, incapace di mutare il processo decisionale e di varare riforme di una qualche rilevanza.
In questo vi è certamente la colpa di una maggioranza parlamentare debole, ma anche una forte corresposabilità dei sindacati, che da questo esecutivo hanno trovato molto ascolto ma hanno tratto poco per il rilancio del paese.
In particolare, i rappresentanti sindacali hanno ottenuto per questi mesi post-pandemia il divieto di licenziamento per i lavoratori stabili che, con ogni probabilità, sarà prorogato a dopo l’estate. All’orizzonte già s’intravede una probabile ondata di tardivi licenziamenti, una volta caduto il divieto imposto per decreto. Un segno del respiro corto delle proposte dei sindacati che, qualora questa drammatica eventualità si verificasse, continueranno molto probabilmente ad invocare l’intervento dello Stato, senza chiedere di ridisegnare il welfare.
Questo periodo ci ha mostrato non soltanto l’inerzia della politica governativa, ma anche l’ancien regime in cui sono rimasti prigionieri i sindacati. Dapprima fautori di un lockdown prolungato e severo, poi fermi alla richiesta di sussidi pubblici e dell’illicenziabilità dei lavoratori a tempo indeterminato.
Per i sindacati italiani, oramai esangui nelle iscrizioni dei lavoratori attivi e fondati prevalentemente sui pensionati, è come se le evoluzioni del mercato del lavoro e le crisi che ne hanno determinato i mutamenti non fossero mai avvenuti. Si continua nella strenua richiesta dell’intervento pubblico, nella difesa delle regole rigide e di un sistema di welfare oramai obsoleto, nel pretendere per il settore privato le stesse certezze del settore pubblico.
Gli ultimi dati Istat, però, fotografano una situazione preoccupante. Tra marzo e maggio 2020 gli occupati sono diminuiti di oltre 380.000 unità; da inizio anno sono 613.000 le persone che hanno perso il lavoro. Su base annua gli inattivi, coloro che non cercano nemmeno più un lavoro, sono oltre un milione. Il tasso di occupazione cala al 57,6% della popolazione, tornando ai livelli del 2016.
Chi perde maggiormente in questa situazione? Il blocco dei licenziamenti deciso dal governo su pressione dei sindacati dirotta la crisi quasi interamente sui lavoratori a termine, che non rientrano nel divieto di licenziamento imposto per decreto. Si è scelto, per l’ennesima volta, tanto a Palazzo Chigi quanto nelle sedi sindacali, di stare dalla parte dei lavoratori più stabili e più anziani. Chi ha un contratto a tempo indeterminato è tutelato, chi è precario rischia di finire tra i senza lavoro. La disoccupazione, infatti, torna a crescere prevalentemente tra gli under 35 mentre sale addirittura l’occupazione nella fascia d’età compresa tra i 50 ed i 64 anni.
Dati che dimostrano tutte le debolezze sindacali nell’interpretare l’odierno mercato del lavoro. La frammentazione occupazionale non può essere governata per decreto, il mercato non si stabilizza imponendo una maggiore rigidità, così come non sarà una norma anti-licenziamento a garantire il futuro dei lavoratori. Essa può essere, al massimo, un palliativo temporaneo. Ma ciò che maggiormente sconcerta del conservatorismo sindacale sono due aspetti, la passività sulle riforme del welfare e l’insensibilità verso coloro che sono meno garantiti (e più giovani). Non c’è una proposta dei sindacati per costruire nuove politiche attive, che permettano di formare e/o riqualificare i lavoratori attraverso una più forte cooperazione tra pubblico e privato; i leader sindacali non pongono mai l’attenzione sui precari, che per gran parte sono giovani. Non servirebbe forse una politica che cerchi di tutelare le ultime generazioni, costrette a lavorare a singhiozzo e con remunerazioni spesso inadeguate? Viene da chiedersi perché i sindacati non si battano per gli aumenti salariali di chi lavora a termine, più che per il mantenimento per via giuridica del posto fisso; perché non propongano una riforma dello Stato sociale che vada oltre il sussidio e la cassa integrazione, favorendo il reinserimento e la mobilità occupazionale; o perché non spingano verso un ulteriore decentralizzazione della contrattazione, lavorando direttamente con gli imprenditori sulla crescita della produttività e i benefici per i lavoratori che da essa possono maturare.
La politica è certamente responsabile di molte mancate modernizzazioni del Paese, ma il conservatorismo sindacale è parte del problema. Ed appare una questione tanto più urgente, quanto grave si profila la crisi socio-economica che abbiamo di fronte. Solo con un maggiore coordinamento tra politica e attori sociali sarà possibile, infatti, trovare risposte per rilanciare il paese in una fase delicata, anche per i suoi risvolti europei ed internazionali. Uno scambio è possibile tra maggiore coinvolgimento dei sindacati nel processo decisionale ed il superamento della fossilizzazione ideologica degli stessi. Senza questo passo, difatti, sarà sempre più difficile sia per i sindacati rappresentare e dare voce all’intero mondo del lavoro, sia per i governi trovare soluzioni di lungo periodo. Il vero rischio di questa immobilità è una spirale di crescente malessere sociale ed economico che, presto o tardi, mostrerà un’inquietante volto politico.
