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Il commissario Draghi ha avviato il ricircolo della classe dirigente

Il commissario Draghi ha avviato il ricircolo della classe dirigente

Speranza, vaccini e burocrazia. Il premier è uno straniero in patria che accentra e cerca di far funzionare al meglio la macchina dello Stato. Senza preoccuparsi di questioni attinenti alla legittimità politica o al grado di europeismo predicato da questo o quel partito. Ci si serve (o si fa a meno) di tutti a seconda dei temi, delle posizioni e delle esigenze del piano. Scelte che, in particolare, colpiscono il potere degli ex Ds e di Leu. Ma non solo.


La sinistra si aspettava un Mario Draghi molto diverso rispetto a quello visto nei primi mesi di governo. Una linea economica più attenta allo sviluppo che ai sussidi, continuità con il ministero di Matteo Salvini sull’immigrazione, mediazione ragionevole sulle riaperture, un approccio non ostile ai lavoratori del privato e agli autonomi e molte nomine pubbliche, poche delle quali hanno compiaciuto la vecchia maggioranza giallorossa. Negli ultimi giorni un Draghi piuttosto livido per i problemi con le vaccinazione ha anche di fatto commissariato il ministro Speranza, sconfessando la linea oltranzista anti-Astrazeneca. Le vaccinazioni potranno essere omologhe e non soltanto eterologhe come chiedeva il dicastero della Salute. Se sul piano politico Draghi è un rullo compressore che non fa del Pd un interlocutore privilegiato, poiché non considera questo come l’incarnazione della responsabilità e dell’affidabilità, sul piano dell’organizzazione del potere è ancora più netto. Nelle more dello Stato d’eccezione che lo ha portato al governo il Presidente del Consiglio è stato capace di infilare la più grande centralizzazione a favore dell’esecutivo dai tempi di De Gasperi. Riportare l’ordine, questa è la missione di Draghi. La pandemia ha mostrato cosa è lo Stato italiano, una grande Bisanzio in cui poteri locali, regionali e centrali si scontrando tra loro senza una capacità di risoluzione. Un puzzle di politiche pubbliche multilivello ed in ordine sparso. Nemmeno la pura contrattazione tra Stato e Regioni è riuscita ad evitare che ognuno facesse grosso modo ciò che volesse su chiusure, tamponi e vaccini. L’avvento del Generale Francesco Figliuolo ha regolarizzato la situazione, pur non potendola risolvere per i limiti costituzionali del nostro ordinamento. Far fuori i manager amici della politica e mettere i vertici dell’esercito a capo dell’organizzazione è stato un risultato non da poco, anche qui con buona pace degli intellò che fingono di spaventarsi alla vista di divisa e stellette. La sinistra è inquieta perché il Pd non sembra essere più l’unico partito delle istituzioni, Draghi ha avviato un ricircolo della classe dirigente che rende meno egemone e centrale il partito di Letta. Scelte che, in particolare, colpiscono il potere degli ex Ds e di LeU nell’ingranaggio del potere.

Ma è con il decreto Semplificazioni che il premier, spietato ben più dei suoi predecessori, ha cercato di mandare in buco il colpo potenzialmente finale al disordine endemico della Repubblica Italiana. I passaggi decisivi degli ultimi mesi danno l’idea della costruzione di questa centralizzazione: anche in questo caso non sono gli esperti governanti del Pd ad avere la meglio sulla maggior parte dei fondi del Recovery, dirottati sui ministri tecnici (Cingolani, Colao e Giovannini), mentre al Tesoro affidato al tecnico Daniele Franco è stata posta la centrale per il monitoraggio, la rendicontazione e il controllo delle politiche del Recovery. Ci sono poi le nomine di Cdp e Fs in chiave Recovery volte a formare un vero e proprio “secondo governo Draghi”, un esecutivo nell’esecutivo, per la gestione degli investimenti pubblici e i poteri sostitutivi del governo centrale nel caso in cui Regioni e comuni si mostrassero incapaci oppure inadempienti. Quest’ultimo è il provvedimento potenzialmente più efficace, capace negli anni di modificare la costituzione materiale senza passare da una legge di riforma. Inoltre, l’evoluzione di palazzo Chigi come cabina di comando del Recovery non è solo la segreteria tecnica con 350 esperti, ma anche un’Unità per la qualità della regolazione (Reagan la istituì nel 1980 negli Usa), una struttura che potrà mettere mano alle leggi per non fare inciampare il Recovery in lungaggini e burocrazia. Ufficio a cui affiancare la nuova task force per la valutazione delle politiche del Pnrr.

Eccolo il metodo Draghi: scegliere i propri uomini, costruire la rete, preparare la macchina, decidere ed eseguire. Senza distinzioni tra partiti, senza rapporti privilegiati che non siano personali, senza diventare il premier di questa o quell’area né il riferimento di taluna o talaltra corporazione. Si può condividere o meno, ma è un’arte di governo. Si ritrovano nella sua azione gli echi dei grandi razionalizzatori che il paese ha avuto in passato. Le intuizioni di Francesco Saverio Nitti e Alberto Beneduce per riformare il sistema finanziario italiano e per creare una amministrazione tecnica e pro-industria tra gli anni dieci e gli anni trenta; l’idea di uno sviluppo industriale fondato sulla cooperazione tra pubblico e privato avanzata dai primi tecnocrati dell’Iri (ancora Beneduce e poi Menichella, Saraceno, Paronetto, Carli, Mattioli e molti altri) senza farsi risucchiare da politica e clientelismo; la ricerca dell’indipendenza dalla politica dei governatori di Bankitalia nel dopoguerra. Draghi sembra consapevole di questa storia, d’altronde è passato da quella Banca d’Italia in cui era ancora forte l’onda lunga di Donato Menichella e Guido Carli, dei successi e delle sconfitte di quegli uomini e quelle strategie. Ha compreso, ad esempio, che nei momenti di crisi non c’è altra soluzione all’accentramento del potere in un numero limitato di istituzioni e che la selezione degli uomini è ciò che più conta per far funzionare uno Stato debole e maldisposto. Da uomo di élite sa che questo termini esige una pluralità, una squadra, oltre le tradizionali divisioni politiche. Consapevole di quanto porosa e scarsa nel processo di attuazione sia la pubblica amministrazione italiana, pur senza svilirla con commissariamenti diretti, ha disseminato gruppi e task forces a fare da guardia sui processi di finalizzazione delle riforme.

Draghi pare aver inoltre compreso, al contrario di altre cariche apicali dello Stato, che in un sistema di governo efficiente non esistono figli e figliastri, partiti affidabili e meno, programmi buoni o cattivi, partiti delle istituzioni e partiti anti-establishment. Esiste soltanto la gestione delle risorse umane, la mediazione per raggiungere un minimo punto comune e soprattutto la decisione che taglia via le lungaggini della politica. Non c’è bisogno di continuità con gli esecutivi precedenti né di dare corsie preferenziali a chi si sente “la parte migliore del Paese”. Il governo è di unità nazionale, dunque tutti i partiti sono trattati allo stesso modo. Si può silenziare Salvini su certi temi, ma anche tagliar fuori Speranza dalla catena decisionale o depotenziare Franceschini sulle decisioni di spesa.

Draghi è un podestà, uno straniero in patria, un commissario che accentra e cerca di far funzionare al meglio la macchina dello Stato. Senza preoccuparsi di questioni attinenti alla legittimità politica o al grado di europeismo predicato da questo o quel partito. Ci si serve (o si fa a meno) di tutti a seconda dei temi, delle posizioni e delle esigenze del piano.

Solo con queste mosse strategiche il governo può reggersi e le politiche pubbliche hanno qualche flebile speranza in più di diventare realtà senza restare soltanto su carta. I pochi mesi di Draghi al governo sono fino ad ora una rivoluzione di metodo, in cui al centro c’è il Presidente del Consiglio non più il Pd partito-Stato, partito-responsabile o partito-europeista. Quel “garantisco io” utilizzato dal Presidente del Consiglio è il segno che Palazzo Chigi resta l’interlocutore privilegiato di qualunque potere europeo ed internazionale. I partiti, tutti, spariscono. E per la scarsa qualità che hanno espresso negli ultimi anni non se ne sente per ora la mancanza, come anche gli stessi sondaggi registrano. Resta, però, un unico inquietante interrogativo sullo sfondo: se ci sarà come sarà il ritorno alla normalità politica dopo Mario il centralizzatore? Cosa ci aspetta all’uscita dello Stato d’eccezione e del super Commissario? Domande, per ora, prive di risposta.

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