La convention nazionale democratica ha formalmente conferito martedì la nomination a Joe Biden, divenuto adesso il candidato ufficiale dell’asinello in vista delle prossime elezioni presidenziali.
Una strada che, sulla carta, potrebbe tuttavia rivelarsi irta di ostacoli. E’ senz’altro vero che l’ex vicepresidente sia dato avanti da tutti i sondaggi, così come è altrettanto vero che – in occasione della convention attualmente in corso – il Partito Democratico sembri aver trovato la tanto agognata unitarietà. Eppure la situazione è ben più complessa di come spesso viene dipinta.
Il primo elemento da tenere in considerazione è proprio quello dei sondaggi. Se – come detto – Biden continua ad essere in testa, va considerato che – rispetto allo scorso luglio – il suo vantaggio sia progressivamente diminuito. Una recente rilevazione della Cnn dà l’ex vicepresidente avanti di appena 4 punti percentuali: un vantaggio che rientra all’interno del margine di errore. E se effettivamente ci sono alcuni sondaggi che attribuiscono al candidato democratico uno stacco di addirittura 10 punti, altri – come The Hill – gliene riconoscono soltanto 6. La stessa media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come – a livello nazionale – nel giro di un mese Donald Trump abbia recuperato circa 3 punti. Un discorso che, sotto molti aspetti, vale anche per alcuni Stati chiave come la Florida, dove l’attuale presidente ha accorciato le distanze negli ultimi trenta giorni. Ma l’aspetto sondaggistico resta forse alla fine quello meno interessante per cercare di capire l’esito delle prossime presidenziali. Non dimentichiamo infatti come le rilevazioni abbiano sempre riscontrato una certa fatica a intercettare gli elettori di Trump e come, dato il peculiare sistema elettorale statunitense, i sondaggi a livello nazionale abbiano alla fine un valore relativo.
La grande difficoltà che ha a lungo contraddistinto l’attuale campagna elettorale americana riguardava il suo centro gravitazionale. Storicamente le campagne elettorali per le presidenziali si strutturano attorno a una questione centrale: il che non vuol dire che siano monotematiche, ma che esiste semmai un problema di fondo, rispetto a cui ulteriori questioni – più o meno dirimenti – poi si accompagnano. Nel 2004 fu la guerra in Iraq, nel 2008 la crisi economica, nel 2016 il conflitto tra establishment e anti-establishment. Quest’anno la situazione si è rivelata più complessa, perché hanno avuto luogo frequenti stravolgimenti. All’inizio del 2020, sembrava che la campagna elettorale avrebbe avuto il suo centro propulsivo nei temi economici. Poi è scoppiata la pandemia e si è imposta la questione sanitaria. Infine, con la morte di George Floyd lo scorso maggio, l’attenzione si è spostata sui temi del razzismo e dell’ordine pubblico. In mezzo a una simile confusione, è tuttavia forse oggi possibile individuare il Leitmotiv centrale di questa campagna elettorale nel concetto di “sopravvivenza”. Quello che, in altre parole, il cittadino americano chiede oggi alla politica è la salvaguardia della propria sopravvivenza dal punto di vista sanitario (contro il coronavirus), dal punto di vista economico (contro la crisi occupazionale, seguita alla pandemia) e dal punto di vista della propria integrità fisica (contro le rivolte scoppiate – negli ultimi mesi – in varie città, come Seattle e Portland).
Al di là di improbabili modelli predittivi in competizione reciproca (il professor Allan Lichtman dà Trump perdente, mentre il professor Helmut Norpoth lo dà vincente), è quindi cercando di capire chi tra i due contendenti saprà dare delle risposte a queste tre questioni che si potrà azzardare qualche previsione sui risultati di novembre. Partiamo dal problema dell’ordine pubblico. Qui è dove Biden probabilmente è più debole. Sulla questione, l’ex vicepresidente non ha mai preso una posizione realmente chiara, soprattutto in riferimento ai disordini scoppiati in svariate città americane nel corso degli ultimi mesi. Non solo ha atteso del tempo prima di dirsi contrario al taglio dei finanziamenti della polizia, ma su alcuni dossier specifici (come l’occupazione del centro di Seattle da parte dei manifestanti di Black Lives Matter per quasi tutto il mese di giugno) non è che abbia detto granché. Trump, di contro, ha sin da subito optato per una linea nettamente securitaria: una linea che potrà anche non piacere ma che ha il vantaggio della chiarezza. L’ambiguità di Biden si spiega probabilmente con il fatto di non voler spaccare un partito – quello democratico – già abbastanza diviso al suo interno. L’ex vicepresidente si rivolge del resto a un elettorato potenziale che va dai centristi all’estrema sinistra. E sa bene che, prendendo posizione netta su temi come l’ordine pubblico, rischia emorragie di voti a destra o a sinistra. Il problema per lui è che, restando in mezzo al guado, rischia comunque di suscitare forti malumori elettorali: anche perché non va dimenticato che le città che stanno riscontrando le situazioni più caotiche e pericolose in materia di ordine pubblico sono tutte amministrate da sindaci democratici (si pensi a Portland, Seattle, New York, Atlanta, Chicago e Minneapolis).
Anche in materia economica la strada è più in salita per Biden che per Trump. E’ vero che i democratici stanno attaccando il presidente per i dati negativi sul Pil, causati dalla pandemia. Ciononostante mediamente i sondaggi mostrano come gli americani tendano a fidarsi più di Trump sulla gestione dell’economia. Non solo per i buoni risultati ottenuti fino allo scoppio dell’epidemia lo scorso febbraio. Ma anche perché, a partire da maggio, i dati sull’occupazione hanno ripreso a migliorare: anche a luglio, nonostante la reintroduzione dei lockdown, il tasso di disoccupazione è sceso di un punto rispetto al mese precedente. Dove Biden mostra maggior forza è sul fronte sanitario, visto che i sondaggi evidenziano tendenzialmente una maggior fiducia degli americani nei suoi confronti in riferimento alla gestione della pandemia. Un elemento che si spiega anche con gli errori che Trump ha commesso soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza: dalle minimizzazioni iniziali alla battaglia – poi sconfessata – contro l’uso delle mascherine. Restano comunque delle incognite. In primo luogo, bisognerà vedere se il presidente sarà in grado di effettuare qualche significativo annuncio sul vaccino entro ottobre. In secondo luogo, non va trascurato che Biden al momento sia un privato cittadino e che non abbia quindi avuto modo di confrontarsi direttamente con la gestione della pandemia in corso. Non solo: la sua attuale vice, Kamala Harris, ha votato in Senato a favore dei provvedimenti economico-sanitari fortemente voluti dalla Casa Bianca (si pensi solo al Cares Act): un fattore che depotenzia la carica critica del ticket democratico verso il presidente. Come si può dunque vedere, a conti fatti, Biden ha – ad oggi – molta più difficoltà di Trump nel presentarsi come il candidato in grado di tutelare la “sopravvivenza” dell’elettore americano.
Più in generale, i nodi strutturali del Partito Democratico restano al momento intatti. E, in un certo senso, la convention in corso sembra li stia addirittura aggravando. Nonostante la compattezza di facciata, è infatti tutto da dimostrare che la compagine sia realmente unita. Anche perché sembra proprio che Biden stia incorrendo negli stessi errori, commessi da Hillary Clinton quattro anni fa. Oggi come allora, l’establishment del Partito Democratico ha monopolizzato l’intero schieramento, mettendo di fatto fuori dalla porta le correnti della sinistra populista e antisistema. La scelta di Kamala Harris come vice va del resto esattamente in questa direzione: la senatrice ha un suo appeal politico per i progressisti altolocati di San Francisco e New York, ma non ha granché da dire ai colletti blu del Michigan e della Pennsylvania: colletti blu che, anzi, potrebbero non gradire affatto le sue rigide posizioni in materia ambientale. D’altronde, che le turbolenze tra il centro e la sinistra non si siano affatto placate, è testimoniato anche dalle polemiche che hanno accompagnato l’inizio della convention democratica tra la deputata Alexandria Ocasio-Cortez e l’ex governatore repubblicano dell’Ohio, John Kasich, invitato a parlare all’evento. Le leve del partito rimangono del resto in mano ai Clinton e agli Obama. E, nonostante la “neutralizzazione” di Bernie Sanders, è tutto da dimostrare che gli elettori del senatore socialista si recheranno in massa a votare per Biden a novembre. Un Biden che resta fragile non solo per i dubbi sul suo stato di salute, ma anche – e forse soprattutto – dal punto di vista politico. Alla fine dei conti, nel corso di questa convention, il Partito Democratico non sembra essere in grado di trovare un elemento realmente coesivo, che non sia l’anti-trumpismo. Quello che sfugge è l’idea alternativa di America che Biden vorrebbe proporre, al di là di una santa alleanza volta a sfrattare Trump dalla Casa Bianca. Se c’è una cosa di cui l’asinello avrebbe bisogno per riprendersi è un rinnovamento della propria classe dirigente, una strada chiara da seguire, una liberazione dalle pastoie mortifere del politicamente corretto. In altre parole, aria nuova. Siamo veramente sicuri che Joe Biden potrà garantire tutto questo? La domanda ovviamente è retorica.La convention nazionale democratica ha formalmente conferito martedì la nomination a Joe Biden, divenuto adesso il candidato ufficiale dell’asinello in vista delle prossime elezioni presidenziali. Una strada che, sulla carta, potrebbe tuttavia rivelarsi irta di ostacoli. E’ senz’altro vero che l’ex vicepresidente sia dato avanti da tutti i sondaggi, così come è altrettanto vero che – in occasione della convention attualmente in corso – il Partito Democratico sembri aver trovato la tanto agognata unitarietà. Eppure la situazione è ben più complessa di come spesso viene dipinta.
Il primo elemento da tenere in considerazione è proprio quello dei sondaggi. Se – come detto – Biden continua ad essere in testa, va considerato che – rispetto allo scorso luglio – il suo vantaggio sia progressivamente diminuito. Una recente rilevazione della Cnn dà l’ex vicepresidente avanti di appena 4 punti percentuali: un vantaggio che rientra all’interno del margine di errore. E se effettivamente ci sono alcuni sondaggi che attribuiscono al candidato democratico uno stacco di addirittura 10 punti, altri – come The Hill – gliene riconoscono soltanto 6. La stessa media sondaggistica di Real Clear Politics mostra come – a livello nazionale – nel giro di un mese Donald Trump abbia recuperato circa 3 punti. Un discorso che, sotto molti aspetti, vale anche per alcuni Stati chiave come la Florida, dove l’attuale presidente ha accorciato le distanze negli ultimi trenta giorni. Ma l’aspetto sondaggistico resta forse alla fine quello meno interessante per cercare di capire l’esito delle prossime presidenziali. Non dimentichiamo infatti come le rilevazioni abbiano sempre riscontrato una certa fatica a intercettare gli elettori di Trump e come, dato il peculiare sistema elettorale statunitense, i sondaggi a livello nazionale abbiano alla fine un valore relativo.
La grande difficoltà che ha a lungo contraddistinto l’attuale campagna elettorale americana riguardava il suo centro gravitazionale. Storicamente le campagne elettorali per le presidenziali si strutturano attorno a una questione centrale: il che non vuol dire che siano monotematiche, ma che esiste semmai un problema di fondo, rispetto a cui ulteriori questioni – più o meno dirimenti – poi si accompagnano. Nel 2004 fu la guerra in Iraq, nel 2008 la crisi economica, nel 2016 il conflitto tra establishment e anti-establishment. Quest’anno la situazione si è rivelata più complessa, perché hanno avuto luogo frequenti stravolgimenti. All’inizio del 2020, sembrava che la campagna elettorale avrebbe avuto il suo centro propulsivo nei temi economici. Poi è scoppiata la pandemia e si è imposta la questione sanitaria. Infine, con la morte di George Floyd lo scorso maggio, l’attenzione si è spostata sui temi del razzismo e dell’ordine pubblico. In mezzo a una simile confusione, è tuttavia forse oggi possibile individuare il Leitmotiv centrale di questa campagna elettorale nel concetto di “sopravvivenza”. Quello che, in altre parole, il cittadino americano chiede oggi alla politica è la salvaguardia della propria sopravvivenza dal punto di vista sanitario (contro il coronavirus), dal punto di vista economico (contro la crisi occupazionale, seguita alla pandemia) e dal punto di vista della propria integrità fisica (contro le rivolte scoppiate – negli ultimi mesi – in varie città, come Seattle e Portland).
Al di là di improbabili modelli predittivi in competizione reciproca (il professor Allan Lichtman dà Trump perdente, mentre il professor Helmut Norpoth lo dà vincente), è quindi cercando di capire chi tra i due contendenti saprà dare delle risposte a queste tre questioni che si potrà azzardare qualche previsione sui risultati di novembre. Partiamo dal problema dell’ordine pubblico. Qui è dove Biden probabilmente è più debole. Sulla questione, l’ex vicepresidente non ha mai preso una posizione realmente chiara, soprattutto in riferimento ai disordini scoppiati in svariate città americane nel corso degli ultimi mesi. Non solo ha atteso del tempo prima di dirsi contrario al taglio dei finanziamenti della polizia, ma su alcuni dossier specifici (come l’occupazione del centro di Seattle da parte dei manifestanti di Black Lives Matter per quasi tutto il mese di giugno) non è che abbia detto granché. Trump, di contro, ha sin da subito optato per una linea nettamente securitaria: una linea che potrà anche non piacere ma che ha il vantaggio della chiarezza. L’ambiguità di Biden si spiega probabilmente con il fatto di non voler spaccare un partito – quello democratico – già abbastanza diviso al suo interno. L’ex vicepresidente si rivolge del resto a un elettorato potenziale che va dai centristi all’estrema sinistra. E sa bene che, prendendo posizione netta su temi come l’ordine pubblico, rischia emorragie di voti a destra o a sinistra. Il problema per lui è che, restando in mezzo al guado, rischia comunque di suscitare forti malumori elettorali: anche perché non va dimenticato che le città che stanno riscontrando le situazioni più caotiche e pericolose in materia di ordine pubblico sono tutte amministrate da sindaci democratici (si pensi a Portland, Seattle, New York, Atlanta, Chicago e Minneapolis).
Anche in materia economica la strada è più in salita per Biden che per Trump. E’ vero che i democratici stanno attaccando il presidente per i dati negativi sul Pil, causati dalla pandemia. Ciononostante mediamente i sondaggi mostrano come gli americani tendano a fidarsi più di Trump sulla gestione dell’economia. Non solo per i buoni risultati ottenuti fino allo scoppio dell’epidemia lo scorso febbraio. Ma anche perché, a partire da maggio, i dati sull’occupazione hanno ripreso a migliorare: anche a luglio, nonostante la reintroduzione dei lockdown, il tasso di disoccupazione è sceso di un punto rispetto al mese precedente. Dove Biden mostra maggior forza è sul fronte sanitario, visto che i sondaggi evidenziano tendenzialmente una maggior fiducia degli americani nei suoi confronti in riferimento alla gestione della pandemia. Un elemento che si spiega anche con gli errori che Trump ha commesso soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza: dalle minimizzazioni iniziali alla battaglia – poi sconfessata – contro l’uso delle mascherine. Restano comunque delle incognite. In primo luogo, bisognerà vedere se il presidente sarà in grado di effettuare qualche significativo annuncio sul vaccino entro ottobre. In secondo luogo, non va trascurato che Biden al momento sia un privato cittadino e che non abbia quindi avuto modo di confrontarsi direttamente con la gestione della pandemia in corso. Non solo: la sua attuale vice, Kamala Harris, ha votato in Senato a favore dei provvedimenti economico-sanitari fortemente voluti dalla Casa Bianca (si pensi solo al Cares Act): un fattore che depotenzia la carica critica del ticket democratico verso il presidente. Come si può dunque vedere, a conti fatti, Biden ha – ad oggi – molta più difficoltà di Trump nel presentarsi come il candidato in grado di tutelare la “sopravvivenza” dell’elettore americano.
Più in generale, i nodi strutturali del Partito Democratico restano al momento intatti. E, in un certo senso, la convention in corso sembra li stia addirittura aggravando. Nonostante la compattezza di facciata, è infatti tutto da dimostrare che la compagine sia realmente unita. Anche perché sembra proprio che Biden stia incorrendo negli stessi errori, commessi da Hillary Clinton quattro anni fa. Oggi come allora, l’establishment del Partito Democratico ha monopolizzato l’intero schieramento, mettendo di fatto fuori dalla porta le correnti della sinistra populista e antisistema. La scelta di Kamala Harris come vice va del resto esattamente in questa direzione: la senatrice ha un suo appeal politico per i progressisti altolocati di San Francisco e New York, ma non ha granché da dire ai colletti blu del Michigan e della Pennsylvania: colletti blu che, anzi, potrebbero non gradire affatto le sue rigide posizioni in materia ambientale. D’altronde, che le turbolenze tra il centro e la sinistra non si siano affatto placate, è testimoniato anche dalle polemiche che hanno accompagnato l’inizio della convention democratica tra la deputata Alexandria Ocasio-Cortez e l’ex governatore repubblicano dell’Ohio, John Kasich, invitato a parlare all’evento. Le leve del partito rimangono del resto in mano ai Clinton e agli Obama. E, nonostante la “neutralizzazione” di Bernie Sanders, è tutto da dimostrare che gli elettori del senatore socialista si recheranno in massa a votare per Biden a novembre. Un Biden che resta fragile non solo per i dubbi sul suo stato di salute, ma anche – e forse soprattutto – dal punto di vista politico. Alla fine dei conti, nel corso di questa convention, il Partito Democratico non sembra essere in grado di trovare un elemento realmente coesivo, che non sia l’anti-trumpismo. Quello che sfugge è l’idea alternativa di America che Biden vorrebbe proporre, al di là di una santa alleanza volta a sfrattare Trump dalla Casa Bianca. Se c’è una cosa di cui l’asinello avrebbe bisogno per riprendersi è un rinnovamento della propria classe dirigente, una strada chiara da seguire, una liberazione dalle pastoie mortifere del politicamente corretto. In altre parole, aria nuova. Siamo veramente sicuri che Joe Biden potrà garantire tutto questo? La domanda ovviamente è retorica.
