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GRAN TEATRO ZINGARETTI

GRAN TEATRO ZINGARETTI

Le comunali del prossimo anno si avvicinano e il presidente della Regione sta facendo le sue mosse sullo scacchiere delle nomine della cultura capitolina. Nelle ultime settimane ha chiuso tre operazioni strategiche. I posti sono quindi distribuiti, ma i conti non tornano.


«Prima regione italiana per investimenti nel settore audiovisivo, la seconda in Europa». Lo slogan usato sulla sua pagina web personale dal presidente della Regione Lazio e segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti per propagandare l’asserita sensibilità per cinema e teatro, in realtà, si sta trasformando sempre più in una gestione del potere caratterizzata da spostamenti sullo scacchiere delle nomine a suo favore.

E per mettere su il «Gran teatro Zingaretti», nelle ultime settimane il segretario del Pd ha chiuso tre operazioni che appaiono come un investimento in vista della campagna elettorale del prossimo anno a Roma: il trasloco dell’attore Giorgio Barberio Corsetti da una posizione manageriale al Teatro di Roma a quella da consulente ha permesso il ritorno di Emanuele Bevilacqua, giornalista, per 20 anni amministratore delegato del settimanale Internazionale, poi al Gruppo Espresso dove ha seguito le riviste Limes e Micromega; l’ingresso in cda di Cristina Da Milano, che ha un trascorso nel centrosinistra per essersi candidata, senza successo, alle passate amministrative nella lista civica a sostegno dell’aspirante presidente dem del primo Municipio di Roma; e l’affidamento alla partecipata Lazio Crea di Filmstudio di via degli Orti d’Alibert, fondato il 2 ottobre 1967 da Americo Sbardella e Annabella Miscuglio in una strada poco conosciuta nel cuore di Trastevere, che negli anni Settanta era diventato il club punto di riferimento del cinema indipendente molto apprezzato dalla sinistra extraparlamentare. Lì mosse i suoi primi passi anche Nanni Moretti, che portò in sala Io sono un autarchico.

Nella cabina di regia c’è un manipolo di fedelissimi dem: la responsabile dell’Area cultura di Lazio Crea Liliana Manocchia, ex consigliere comunale Pd, ricordata per essere tra le firmatarie per le dimissioni di Ignazio Marino; Aldo Fusacchia, lanciato da Dario Franceschini e Roberto Morassut al congresso dem del 2009 e poi candidato Pd al Municipio 1; Nicola Burrini, commissario del Pd ad Anzio ed ex consigliere comunale. Sulla riqualificazione dell’immobile, che è di proprietà della Regione Lazio (e per questo affidato a Lazio Crea per la gestione e per l’ipotizzato rilancio), Zingaretti ha messo sul piatto 1.123.803 euro. «Il Filmstudio», è scritto nell’introduzione al progetto, «è stato e continuerà a essere per sua stessa natura un laboratorio, un centro di continua ricerca e di elaborazione culturale, uno strumento di riflessione e d’intervento sulle trasformazioni delle strutture cinematografiche; un punto di riferimento, un luogo d’incontro e di scambio per i cineasti che producono i loro film in maniera indipendente». Ma con un orientamento identitario ben preciso, visti i nomi di chi si occuperà di rimettere in sesto il cine club.

Quello dell’identità, d’altra parte, è un tema toccato anche nel progetto, visto che a pagina 41 della delibera di affidamento a Lazio Crea si legge: «Sarà molto importante rilanciare la nuova identità del luogo: un hub culturale per ogni generazione e per i vari linguaggi artistici, riservato principalmente al cinema e, più in generale, all’arte indipendente che lamenta sempre la scarsità di spazi». Non solo: «Particolare spazio verrà dedicato alle donne che hanno fatto la storia del cinema. Sono tante le figure femminili che hanno lasciato un segno nella storia del cinema, che lo hanno ispirato e rivoluzionato». Ma come si reggerà il Filmstudio una volta rinnovato? Quasi esclusivamente con fondi pubblici. Su 146.000 euro di spese annue stimate, 98.000 euro, è spiegato nel progetto, li sborserà la Regione Lazio (nel budget sono previste anche 50.000 euro per campagne di comunicazione e pubblicità). Il resto probabilmente i progettisti sperano di farlo rientrare con gli incassi, nonostante la sala sia molto piccola e con pochi posti a sedere – solo 72 – che ora con le norme dovute al distanziamento saranno ancora meno.

L’operazione, però, sembra godere di un certo consenso in quella sinistra romana che vive ancora di ricordi. E, forse, l’obiettivo di Zingaretti era proprio quello. Ma se i conti della saletta di Filmstudio non sembrano tornare, quelli di Teatro di Roma sono molto contestati. Soprattutto perché la mossa del cavallo studiata per spostare Barberio Corsetti ha avuto un costo ben preciso. L’artista è stato prima nominato direttore manager (ma sono subito cominciate le contestazioni su presunte carenze di titoli da amministratore), poi si è dimesso ed è stato ingaggiato solo due giorni dopo con una consulenza da direttore artistico. Il contratto è da 98 mila euro annui. Da manager ne percepiva 130.000. Ma alla somma per la consulenza dell’artista va aggiunta quella del nuovo responsabile amministrativo al quale andranno i soliti 130.000 euro (presto uscirà il bando per la manifestazione di interesse).

Corsetti, inoltre, non è stato propriamente retrocesso: gli spettano 40.000 euro per ogni regia (con la gestione precedente erano 30.000) e 20.000 euro (contro i 15.000 dati in precedenza) per ogni riallestimento. Ovviamente, sono coperte le spese per le trasferte. Per i lavoratori, invece, nessun aumento: continueranno ancora per un po’ a percepire il Fis (Fondo integrativo salariale) previsto per la crisi del coronavirus. A Francesca Corona, che dirigerà il Teatro India, invece, andranno 45.000 euro. Corona aveva un contratto dalla durata di un anno, ma in pieno lockdown ha incassato un rinnovo triennale (fino al 2022).

La consigliera regionale della Lega Laura Corrotti ha presentato un’interrogazione urgente alla quale, però, Zingaretti non ha mai risposto. «La crisi culturale del Lazio», dice Corrotti a Panorama, «nasce da una cattiva gestione di un contenitore che viene usato per accontentare i soliti amici. Sembra surreale che mentre la Regione Lazio fatica a dare un sostegno decente agli operatori privati di un settore sostanzialmente fermo, i contributi regionali al Teatro di Roma vengano utilizzati per garantire i soliti noti». L’indice è puntato verso il nuovo cda. E se Bevilacqua è stato confermato alla presidenza in quota Comune da Virginia Raggi, per il consiglio Zingaretti ha fornito due nomi da coup de théâtre: Francesca Vergari, della quale ci sono pochissime tracce sul web (il suo nome non compare neppure sul sito dell’associazione Teatro di Roma), e Rossana Rummo, direttore generale delle Biblioteche e Istituti culturali del Mibact, già sub-commissario straordinario del Comune di Roma alla Cultura ed ex numero uno dell’Istituto italiano di cultura di Parigi.

D’altra parte, una sponda il regista dem delle nomine sembra averla trovata proprio nell’assessore pentastellato, Luca Bergamo, che è molto sensibile al Pd. È stato lui a privarsi della quota che al Comune spetta nel cda del Teatro di Roma scegliendo la zingarettiana Da Milano. La prova? È da ricercare nella dichiarazione che Bergamo ha rilasciato, a caldo, subito dopo le nomine: «Sono felice di dare il benvenuto a Francesca Vergari e a Berta Maria Zezza (in quota Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, ndr), che con il loro ingresso concorrono alla formazione di un cda al femminile, composto per quattro quinti da donne». E la Da Milano? Deve averla proprio scelta Zingaretti.

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