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Giulio Gallera: «Io, maratoneta, adesso corro contro il tempo per fermare la morte»

Giulio Gallera: «Io, maratoneta,
adesso corro
 contro il tempo 
per fermare 
la morte»

La tattica di aggirare i tamponi considerando tutti malati, la scommessa sull’ospedale in Fiera. E poi i pianti dei collaboratori, i braccio di ferro con il governo, gli attacchi personali. L’assessore regionale al Welfare racconta i suoi giorni più bui. Che supera pensando al traguardo.


I segni della mascherina ce li ha anche lui, ma è normale perché quelle che devi mettere per andare nelle trincee lombarde sono stringenti. Quindi, se lo vedete con le strisce rosse sopra il naso e il solito sorriso fare ogni giorno la diretta con i conti del virus, è perché è appena tornato da lì. L’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, improvvisamente pop e improvvisamente idolo degli «ultras Gallera» su Instagram, è dentro il tunnel da settimane e percepisce appena, dice, che qualcosa è cambiato intorno alla sua persona. Di lui, a vent’anni liberale della corrente di Altissimo, quella più a sinistra, pensano che se uno inizia impegnandosi in un partito al 3 per cento, vuol dire che ha la politica dentro. E dicono pure che sia la «recluta simbolo» del discorso berlusconiano della discesa in campo, nel ’94. Non poteva, Gallera, che finire diretto nel partito di Silvio e muoversi a piccoli passi dalla «zona 19» di Milano al consiglio comunale e poi in Regione, dove la sventura capitata ad altri, e cioè l’arresto del collega di partito Mario Mantovani nel 2015 (l’era di Bobo Maroni), portò fortuna a lui che gli subentrò pochi mesi dopo all’assessorato alla Sanità.

Nei giorni dei lutti e della disperazione, gli attacchi arrivano dagli scienziati e anche dai sindaci. Quello di Brescia, Emilio Del Bono, denuncia una situazione fuori controllo.

Abbiamo ospedali senza posti, stiamo ricoverando persone ovunque. A Lodi il pronto soccorso è diventato un reparto con i respiratori attaccati alle barelle, a Crema ci sono ospedali da campo. Il sindaco di Brescia denuncia dati di fatto, ma con i sindaci c’è condivisione e unione, ci hanno sostenuto quando il governo era lento a capire, siamo tutti sulla stessa barca.

Quanti tamponi a oggi in Lombardia? Il virologo Andrea Crisanti denuncia che bisogna farli anche agli asintomatici. Anzi, che bisognava farli almeno venti giorni fa.

Oggi siamo a circa 82 mila tamponi, ma è un falso tema. Non so lei, ma io conosco almeno cinque persone che hanno avuto il coronavirus e non hanno fatto il tampone. All’inizio li tamponavamo tutti, poi non ce l’abbiamo fatta più. E circa il 50 per cento dei positivi alla fine non veniva ricoverato.

La strategia «a tappeto» del governatore Luca Zaia si sta dimostrando vincente. Non si poteva copiare?

Noi li facciamo agli operatori sanitari e ai contatti diretti dei contagiati. Siamo in assoluto la regione che ne ha fatti di più. Abbiamo 22 laboratori che riescono a processare 5 mila tamponi al giorno. Che cosa succederebbe se facessimo il tampone a tutti i lombardi o anche solo al 10 per cento? Un milione di tamponi? E quanto ci metto, faccia un milione diviso 5 mila. Poi, il tampone che oggi è negativo non è detto che domani lo sia ancora, non ti dà la certezza. La strategia è quella di tenere in isolamento tutti quelli che potrebbero avere il Covid-19, è considerare tutti come dei potenziali malati, anche chi ha un semplice raffreddore.

Il dato complessivo dei contagiati, lo ha detto anche il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, è sottostimato ben oltre il 70 per cento.

La conta dei morti serve alla statistica, a me ora interessa curare quelli che stanno male.

Perché sorride quando illustra anche il più nefasto dei bollettini della Lombardia?

Non puoi essere un propagatore del panico. Cerco di infondere sicurezza, il mio dovere è anche questo. Eppoi sono sempre stato così, una persona solare.

Quali sono i suoi momenti di dolore?

Sono infiniti. La difficoltà quotidiana per recuperare mascherine e dispositivi, la sofferenza dei medici che non riescono ad aiutare tutti, i pochi posti in terapia intensiva. Sono sempre con l’unità di crisi e lì a volte si urla, si piange. Ho visto una mia dirigente in lacrime perché non si riusciva a trasmettere il messaggio della nostra impotenza, abbiamo litigato anche tra di noi, ma è la tensione per non riuscire a fare tutto.

E come si dà la scossa in questi frangenti?

La scossa l’ha data il grande Antonio Pesenti (coordinatore delle unità di crisi della Lombardia per le terapie intensive, ndr) che a quasi 70 anni ha parlato con le lacrime agli occhi. Li avevo portati apposta da lui perché ci fosse la consapevolezza della guerra in corso, ed è stata appunto la scossa. Poi io e altri del mio gruppo siamo saliti al 35esimo piano, dal presidente Attilio Fontana. Gli è stato raccontato nei dettagli il problema, anzi il dramma delle terapie intensive e da lì è partita l’idea della lettera aperta al governo.

Era l’8 marzo, il giorno della grande fuga e della paura…

Sì, quel sabato il governo ha cambiato la propria posizione ed è uscito con il famoso decreto che ha provocato il fuggi fuggi. Io ho ricevuto a mezzanotte telefonate di gente nel panico che non sapeva come fare a rientrare, gente che ha preso i bambini dalla montagna per tornare a casa, ma non sapeva se fosse giusto restare dov’era… Lo dice anche Albert Camus ne La peste, si comunica a decisione assunta. E pensare che lo stesso giorno, ma al mattino, a Palazzo Chigi la posizione era ancora molto blanda.

Quando ha capito che stava cominciando la battaglia?

Era il 20 febbraio ed ero a cena da amici quando è squillato il cellulare: c’è il primo positivo. Ho chiamato il presidente Attilio Fontana, il ministro e sono corso in ufficio. Alle 22 e 30 eravamo già in 15 e abbiamo fatto le tre di notte. Nell’arco di due giorni saremmo precipitati in un’altra dimensione. Tre, quattro, cinque e poi una valanga di casi. Abbiamo smesso di guardare con un certo distacco a quello che capitava lontano da noi, in Cina. E ho capito che non eravamo pronti, non avevamo né screening né modelli.

Una volta ha dato dell’ignorante al presidente del Consiglio e un’altra ha definito carta igienica le mascherine distribuite dalla protezione civile. E l’aplomb istituzionale?

Ho difeso i medici e gli infermieri dell’ospedale di Codogno dagli attacchi di Giuseppe Conte: lui non poteva ignorare che avessimo seguito i protocolli. Quando c’è da difendere la dignità e il lavoro delle persone con cui lavoro e che coordino, non transigo. Sulle mascherine dico semplicemente che non è consentito. Basta fare un giro nei pronto soccorso.

Pensa che Luigi Di Maio possa risolvere il problema delle mascherine così come dice dai giorni in tv e sui social?

A oggi non le abbiamo viste, poi speriamo che arrivino. Il tema vero è che siamo stati mandati a fare una guerra a mani nude. Il sistema regionale è chiamato a organizzarsi sull’ordinario, se avessi comprato 50 milioni di mascherine a ottobre, sarebbe venuta la Corte dei conti a dirmi: ma lei a che titolo fa una roba del genere? Mi avrebbero denunciato per danno erariale. La Protezione civile deve fronteggiare lo straordinario.

Una delle sue figlie, diciottenne, studia negli Usa. Che cosa le dice al telefono?

È sempre stata tranquilla perché lì è arrivato tutto dopo. E si è stupita quando ha capito che il Gallera di cui parlava il New York Times era suo padre. Comunque tornerà perché lì hanno chiuso tutto.

Hanno chiuso tutto subito.

Certo, perché noi siamo la cavia del mondo. E meno male che è successo in Lombardia, perché un altro sistema non avrebbe avuto la nostra capacità di reazione. Ora quello che stiamo facendo noi lo fanno tutti.

Che cosa rimprovera, a parte Codogno, al presidente Conte?

La situazione è complicata e non c’era un manuale da seguire. Ma il «meno provvedimenti e più netti» avrebbe giovato a tutti. Quando abbiamo chiesto di fare la zona rossa nella bergamasca, il governo ha nicchiato per due o tre giorni. Ed è solo un esempio. Pur comprendendo la fatica, se emani una misura deve valere almeno due settimane, non due giorni.

In questo periodo vede di più il sindaco di Milano Beppe Sala o il leader della Lega Matteo Salvini?

Sala lo incontro poco, Salvini è spesso qui a informarsi e ci parliamo molto. Siamo stati in consiglio comunale per tanti anni, c’è stato un momento in cui io ero assessore al decentramento e lui presidente della commissione. Insomma, un rapporto consolidato. Ci siamo simpatici, almeno spero.

Il sindaco sostiene che si stia speculando sul suo errore di sottovalutazione del virus.

Sala ha sbagliato, glielo avevamo sempre detto che la situazione era brutta. Noi siamo milanesi, io sono milanesissimo, conosciamo bene il dinamismo di questa città. Avendo fatto parte delle giunte Albertini e Moratti, sono stato uno degli artefici della Milano dei grattacieli e dell’Expo. Ma in quel momento il tema era un altro e lui non l’ha capito.

Quando ha parlato l’ultima volta con il capo del suo partito, Silvio Berlusconi?

Per la donazione che ha messo a disposizione della sanità lombarda. Altre volte mi ha chiamato per aggiornamenti e anche, sì, per farmi i complimenti.

Le ha detto che se continua così, Salvini permettendo, farà il sindaco di Milano?

Ma no, mai parlato di questo. Vedremo il ruolo che avrò.

Dopo che su Repubblica ha ammesso di essere pronto alla sfida, i suoi oppositori le hanno dato dello sciacallo.

Sono concentrato su quello che faccio e non dormo più. Il mio obiettivo è salvare il maggior numero di persone e dare l’aria a tutti quelli che ne hanno bisogno, trovare quei maledetti tubi da mettere in gola a chi sta male. Chi mi conosce sa come sono. Ho sempre fatto così, cercando di dare il meglio ovunque mi trovi. Quando ero assessore ai servizi funebri e cimiteriali e ho avuto l’idea di fare il Museo a cielo aperto al Monumentale, se parlavo la gente si toccava, mi capisce? Ma io sono andato avanti per la mia strada, ho tolto le ruspe, ho fatto il Giardino del ricordo, il Tempio civico.

Lei e Attilio Fontana formate la strana coppia che si alterna ogni sera nelle case degli italiani. Il virus ha consolidato il vostro rapporto?

Il rapporto era già solido perché sono stato l’unico assessore che lui ha riconfermato nella stessa delega. Ora si vive in simbiosi al 35esimo piano. È una persona straordinaria: ti ascolta, cerca di capire bene le cose e al momento giusto decide. Lui si arrabbia più di me, ma del resto è un leghista, seppur moderato.

Assessore, è vero che l’idea di allestire l’ospedale in Fiera è stata sua?

Sì, l’abbiamo fatta nascere all’interno dell’unità di crisi: tra le varie soluzioni
ho proposto quella e poi ne abbiamo discusso con gli esperti e adesso aspettiamo di tagliare il traguardo.

A proposito di traguardi, lei è un runner che non può più correre, almeno per diletto.

Correvo una volta a settimana, in genere per 15 chilometri. Come massima distanza ho fatto per due volte la Cortina-Dobbiaco, cioè 30 chilometri. Mi ero prenotato per la mia prima maratona il 3 maggio a Praga, ho anche già pagato. Ma poi è venuto giù il mondo.

E lei ci è arrivato allenato. Non ha paura di ammalarsi?

No, in questo momento mi sento forte, forse perché ho preso decisioni forti.

Che cosa cambierà per sempre dentro di lei?

Vivo un’esperienza di un’intensità enorme, sto facendo del mio meglio, ma troppe persone muoiono. Tutti dovremo fare i conti con la nostra fragilità, arriva un virus e stop, cambia tutto da un giorno all’altro.

Prega per questo?

Guardi, sono sincero. No, non ho tempo, non ci riesco.

Che cosa farà appena tutto sarà finito?

Magari mi preparerò per un’altra maratona. Forse quella di New York. E ricomincerò a correre.

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