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La sorella d’Italia studia da premier

La sorella d’Italia studia da premier

Giorgia Meloni è a una svolta. Punta a diventare la prima presidente del Consiglio donna, ma per farlo ha bisogno del voto del Nord (e del suo denaro). Per questo, dopo lo stop ai rapporti con Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ha lanciato l’ultima convention politica proprio sotto la Madonnina. Con alcuni vantaggi competitivi.


Prima s’è acclimatata nell’uggiosa Bruxelles, illustre presidente dei Conservatori europei. Poi s’è spinta nell’assolata Orlando, unica ospite donna alla conferenza dei repubblicani statunitensi. Adesso s’è lanciata alla conquista della grigia e operosa Milano, con un epocale congressone che sancisce la sua candidatura a premier. Lo scorno quirinalizio è stato il fortuito incidente che ha convinto Giorgia Meloni a non chiedere più permesso ai vecchi maggiorenti del centro destra: Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Adesso balla da sola. L’esibito atlantismo filoucraino. La rimarcata distanza dal sovranismo. L’ammiccante dialogo con il segretario del Pd, Enrico Letta. La primazia nei sondaggi. E ora l’ultimo, fondamentale, tassello: espugnare il Nord.

L’ex «regina della Garbatella», vociante e fumantina, dovrà diventare anche una distinta milanese, compita e rassicurante. Dopo aver convinto Partite Iva e commercianti, punta a persuadere la borghesia produttiva e i grandi imprenditori. Quelli che il Cavaliere aveva stregato nel 1994 con i suoi giganteschi manifesti elettorali: da «Meno tasse per tutti» a «Per un nuovo miracolo italiano». Quelli che, tre anni fa, la Lega titillava con flat tax e lotta all’immigrazione selvaggia.

Bisogna tenere insieme destra classica e mondo neo-con. Dio, patria e danè. La convention meneghina di fine aprile segna la riscossa dei «bambini viziati» che tentano di «scimmiottare la storia», come li definiva Gianfranco Fini, deposto leader di An. Era il dicembre 2012. Assieme a Ignazio La Russa, navigato colonnello, e Guido Crosetto, liberale irregolare, Meloni fonda Fratelli d’Italia. Alle elezioni della primavera dpo, sfiora il 2 per cento. Giorgia allora è la coatta che non sa stare a tavola, circondata dai ragazzotti di Azione giovani, il movimento dei virgulti aennini. «Non usciranno dal raccordo anulare» profetizzano. «La Marine Le Pen de’ noantri» sfottono. Ignari che quasi dieci anni più tardi, proprio dopo aver negato l’appoggio alla leader della destra francese, si sarebbe candidata a guidare l’Italia.

Ventidue per cento, concordano i sondaggisti. Grazie a una decade di indefessa opposizione: perfino solitaria, durante il governo di Mario Draghi. Primo partito del paese. Manca però un anno alle politiche. E serve l’ultima sterzata: da aspiranti nipotini di An a nuova Forza Italia. Sognando il 30 per cento magari, per eguagliare il glorioso passato della creatura berlusconiana. Le tre giornate di Milano sono la volata finale. Simboleggiano la comunanza con il mondo produttivo e industriale, quello che resta da conquistare per ratificare la supremazia elettorale. Ed è l’ennesimo scalpo agli alleati: Silvio e Matteo, due che più meneghini non si può. Ora arriva lei: aspirante sciura, a dispetto dell’inconfondibile accento romano. Circola già una rilevazione che attesta un clamoroso sorpasso nel capoluogo lombardo: Fratelli d’Italia al 18 per cento, Lega al 14.

Sarebbe la fine di un’epoca. Il compimento della strategia. Europei, conservatori, atlantisti. E produttivisti. La svolta è segnata dal contributo di consigliori di chiara fama. La classe dirigente, insomma. Quella che ha sempre latitato. Sono i traghettatori. Talvolta, i ministri in pectore. E non a caso, tutti fieri nordisti. A partire dall’ex magistrato Carlo Nordio, trevigiano, già candidato da FdI alla presidenza della Repubblica. Sulla riforma della giustizia ogni sua parola è Cassazione, dal sorteggio del Csm alla spietata lotta contro le correnti. Proficui rapporti anche con il lucchese Marcello Pera, già seconda carica dello Stato a Palazzo Madama, pure lui ex quirinabile, teorico del vagheggiato presidenzialismo. Ascoltatissimo come il politologo torinese Luca Ricolfi: responsabile scientifico della Fondazione Hume, editorialista di Repubblica, tra le poche voci critiche della gestione sanitaria durante la pandemia. D’altra parte, il professore non s’è sottratto: «Forse è venuto il tempo di guardare in modo più concreto al mondo della destra» ha scritto «deponendo lo schema estremisti e moderati». Chiaro riferimento al nuovo corso meloniano. Benedetto pure dall’appoggio di intellettuali, anch’essi settentrionalissimi, come Stefano Zecchi e Francesco Alberoni.

Ovviamente, soprattutto in questi periodi bellici, non si prescinde dal cuneese Crosetto: ex ministro della Difesa, imprenditore e presidente di Aiad, la federazione delle aziende aerospaziali. Su geopolitica, atlantismo e spese militari la sua opinione resta ineluttabile. Difatti è l’unico del partito, oltre alla leader, a poter scorrazzare in tv. E non solo: è lui, ufficialmente fuori dai giochi, l’ambasciatore che tenta il faticoso riavvicinamento con gli alleati. Nella lista dei notabili chiamati a offrire il loro contributo al programma ci sono però anche diplomatici veri: come il bergamasco Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri nel governo Monti.

Sull’unico sovranismo rimasto in agenda, quello energetico, un contributo fondamentale viene dal milanese Stefano Donnarumma, a.d. di Terna. Ottime relazioni anche con il suo predecessore, il lombardo Flavio Cattaneo, poliedrico manager, ora vice presidente di Italo, vicino al triumviro La Rossa. Tra gli imprenditori c’è pure Matteo Zoppas, erede dell’omonima famiglia di industriali, già a capo di Confindustria in Veneto. In economia e finanza sale in cattedra il valtellinese Giulio Tremonti, ex ministro delle Finanze di era berlusconiana: fautore degli eurobond e teorico del riscatto degli stati. Adesso, tra le altre cose, è presidente in Italia di Aspen, prestigioso think tank statunitense, salottone dei cosiddetti poteri forti. Un anno fa, anche il nome di Meloni è apparso tra i soci: prima, discreta, avvisaglia delle future evoluzioni.

È stato insomma il sigillo ad atlantismo ed europeismo, adesso conclamati. Anche Enrico Letta è membro di Aspen: siede nel comitato esecutivo. I due leader ostentano la loro frequentazione, malcelando una certa simpatia. «Siamo ormai come Sandra e Raimondo» scherza lei. Sono la strana coppia, ma neppure tanto. Il Foglio pubblica perfino uno scambio a distanza tra i due. Perché ora Giorgia è corteggiatissima dai media sempre ostili. Eppure, appena sei mesi fa, era sotto attacco per i suoi supposti legami con l’estrema destra, denunciati da Fanpage. Acqua passata. Oggi, al pari del Fini antiberlusconiano, anche la Meloni antisalviniana è una beniamina dei vecchi nemici. Lei promette di non tradire, ma fa l’occhiolino allo sfegatato europeismo del segretario dem: «C’è più di un punto di contatto fra il pensiero di Enrico Letta e il mio».

Il proficuo dialogo sottolinea l’addio al sovranismo. Messaggio in bottiglia ai naviganti di Bruxelles. E pizzino agli sfidanti nei palazzi romani. Saranno Pd e Fratelli d’Italia a contendersi la guida del Paese. Enrico contro Giorgia. Gli altri, dai Cinque stelle al Carroccio, si preparino a far da comprimari. Ma le scenette da coniugi Vianello sono forse anche un tentativo di isolare il nemico comune. Non tanto lo sbiadito Giuseppi, ma il temibile Capitano. Per Letta, Salvini è l’alleato obtorto collo. Per Meloni, è colui che si comporta ancora da padrone. Dopo la rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella, i rapporti tra Giorgia e Matteo, mai smaglianti, si sono azzerati. Neanche una telefonata. O un sms.

Del resto, lei l’aveva detto: «La nostra non è un’incomprensione banale». Eppure, saranno costretti a ricomporre. La tentazione forzaleghista di far rimanere Draghi a Palazzo Chigi potrebbe ormai essere superata dall’esplicito diniego del premier. Si torna allora allo schema originario. Chi prende un voto in più, a meno dell’ennesimo governissimo, sale a Palazzo Chigi. Giorgia, quindi. Sondaggi permettendo, s’intende. Per questo, Lega e Forza Italia pensano di maritarsi, sperando che l’aritmetica non l’inganni. I voti delle camicie verdi assieme a quelli degli azzurri potrebbero ridare la supremazia elettorale. I precedenti, però, non confortano. «A volte in politica due più due non fa quattro, ma zero» ricorda Umberto Bossi, fondatore del Carroccio.

Il Senatur e il Cavaliere. Bei tempi, quelli. Uno in canotta bianca. L’altro in doppiopetto antracite. Eppure, alla fine, un accordo si trovava sempre. Invece, dopo 25 anni, il centrodestra non è mai stato così disunito. Colpa dei testosteronici Silvio e Matteo, dicono. Mal digeriscono l’irruente ascesa dell’ex Cenerentola, argomentano. La tacciano d’essere disposta a tutto pur di imporsi. Mentre lei trasforma i sospetti in accuse: «Bisognerebbe chiedere agli altri partiti di centrodestra se il loro obiettivo prioritario è battere la sinistra o Fratelli d’Italia». Comunque sia: le prove generali saranno in Sicilia, abusato ed eterno laboratorio politico. Salvini, in vista delle amministrative isolane, ha creato il listone «Prima l’Italia». Esperimento locale, derubricano i leghisti. Allora perché affidarne l’esecuzione nientemeno che a Roberto Calderoli, vice presidente del Senato, espertissimo in statuti e garbugli?

Per questo, Meloni cerca di aumentare il distacco. A quel punto, ogni federazione sarebbe vana. Il primo passo saranno le imminenti amministrative, anticipo del decisivo voto nazionale. Fratelli d’Italia non ha mai brillato in città come Verona, Padova, Asti o Gorizia. Ma Giorgia è convinta di sorpassare Matteo pure nelle sue roccaforti. Accordarsi ovunque sembra impresa improba. Specialmente in Sicilia. Meloni insiste per ricandidare il governatore uscente, Nello Musumeci, inviso però agli alleati. E se non dovesse riuscirci, è pronta una luciferina vendetta: il liberi tutti. Fratelli d’Italia, proprio per consolidare la presenza al Nord, potrebbe tentare addirittura l’assalto alla Lombardia, se il leghista, Attilio Fontana, non dovesse ripresentarsi. Altrimenti, l’obiettivo è la presidenza del Lazio con Francesco Lollobrigida, fedelissimo e cognato della leader.

Ognuno, stavolta più che mai, gioca per sé. Pensando al prossimo e decisivo traguardo: le elezioni del 2023. Meloni ha la baldanza della trionfatrice. Negli ultimi mesi, è convinta di averle azzeccate tutte. Fermo atlantismo e incrollabile appoggio al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Convinto invio delle armi a Kiev e controverso aumento delle spese militari. Tanto da guadagnarsi pure la riconoscenza di Draghi. Sentimento che potrà tornarle utile se il premier, uscito da Palazzo Chigi, dovesse accaparrarsi un’altra poltronissima: segretario generale della Nato, per esempio. Al contempo, Meloni marca distanza da madame Le Pen. D’altronde, da presidente dei Conservatori, dopo aver gemellato il movimento con i tories inglesi e i repubblicani americani, ha stoppato la fusione con Identità e Democrazia, dove siedono Lega e Front national. E persino la visita al Vaticano di Viktor Orbán, premier ungherese già ospite d’onore ad Atreju, consueta kermesse meloniana, è stata bellamente ignorata. A proposito: a tenere gli indispensabili rapporti con la Santa Sede è l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio della nuova evangelizzazione.

Mosse ben studiate. Che rassicurano le cancellerie. In Europa l’alleato privilegiato rimane il Pìs, partito del premier polacco Mateusz Morawiecki, che guida un governo fortemente anti russo. Dunque, perfetto allo scopo. E sul palco dei repubblicani in Florida, tailleur bianco e sorriso smagliante, Meloni diventa «sister of Italy». La sorella tricolore. Adesso osa l’impensabile: diventare la prima premier donna della storia patria. n

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