Home » Attualità » Opinioni » Germania: più che dei Verdi, il futuro è dei furbi

Germania: più che dei Verdi, il futuro è dei furbi

Germania: più che dei Verdi, il futuro è dei furbi

Giunti al vertice in Germania, per i Grünen è l’ora dei compromessi. Ma anche nel resto d’Europa l’ideologia si scontra con la realtà.


Pragmatici, flessibili, disposti al compromesso. Ma anche determinati e sicuri di sé tanto da permettersi lo scontro con i movimenti della stessa galassia da cui provengono. Benvenuti nel mondo dei Grünen, i verdi tedeschi, un partito che due ere politiche fa (era il 1998) si affacciava per la prima volta al governo federale con il 6,7 per cento dei consensi. Da allora moltissima acqua è passata sotto i ponti: il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, che li aveva accompagnati al potere, è tramontato nel 2022 e per 16 anni la repubblica federale è stata dominata da Angela Merkel.

Nel 2011 la cancelliera venuta dall’est scippa ai Grünen la battaglia contro l’atomo sull’onda del disastro nucleare di Fukushima, accelerando a fine 2022 lo spegnimento delle ultime centrali atomiche tedesche. Privati della loro principale ragione d’essere, i Verdi parevano destinati all’estinzione. Un anno fa, invece, i Grünen sono tornati al governo con i socialdemocratici del cancelliere Olaf Scholz, ma i rapporti di forza sono ben diversi da quelli del 1998. La Spd si è fermata al 25,7 per cento mentre con il 14,8 per cento dei voti (ma oggi i sondaggi li indicano attorno al 20 per cento) i verdi hanno ottenuto cinque ministeri, fra i quali Economia e Clima con il vicecancelliere Robert Habeck, e gli Esteri con la ministra Annalena Baerbock. Di più: i Grünen sono al governo in 13 dei 16 Länder tedeschi in maggioranze di mille colori. E il Land dove i verdi esprimono anche il presidente del governo è il ricchissimo Baden-Württemberg, la regione con Stoccarda, sede fra l’altro di Mercedes-Benz e Porsche, a riprova che ambientalisti e industria possono andare d’accordo. Abbandonata l’ideologia, gli ecologisti si sono fatti partito borghese, trasversale, capace di sintetizzare temi di destra e di sinistra: dal No al nucleare al Sì all’accoglienza ai migranti ma un No al velo islamico, e un deciso posizionamento atlantico sullo scacchiere geopolitico, fermo restando il Sì alla crescita con un occhio alla sostenibilità. La formula piace ai tedeschi che a ogni elezione premiano gli ecologisti.

Per dare un’idea di come i Verdi della Germania non assomiglino neanche un po’ a quelli nostrani basterà ricordare che Baerbock è stata la prima ministra tedesca a visitare Kharkiv, nell’est Ucraina, poco lontano cioè dal fronte con la Russia. E prima ancora che il cancelliere Scholz accettasse di inviare carri armati Leopard II «made in Germany» alle truppe ucraine, Baerbock aveva già forzato la mano del cancelliere assicurando che Berlino non avrebbe detto di no. Mentre la ministra si schierava con la Nato, il suo collega Habeck consentiva al gigante energetico tedesco Rwe di radere al suolo i resti del borgo renano di Lützerath permettendo l’estrazione di lignite dal suo sottosuolo. In altre parole, è stato lui a chiedere alla polizia tedesca di spostare di peso i manifestanti anti-carbone, come Greta Thunberg e i suoi accoliti di Fridays for Future, dai pressi della miniera e di manganellare gli ecologisti più scalmanati che hanno protestato con bandiere rosse e fumogeni.

Un tradimento? Giammai, ha replicato Habeck. Il ministro ha ricordato che in cambio della lignite Rwe spegnerà le sue centrali a carbone nel Nord Reno-Vestfalia (18 milioni di abitanti) nel 2030 anziché nel 2038, un risultato ben più importante della salvaguardia di un borgo diroccato. Saranno le elezioni a stabilire se i fatti di Lützerath hanno interrotto la luna di miele fra gli elettori e i Grünen. Ma la politica dei due forni aiuta i Verdi a cadere sempre in piedi.

Viene dunque da chiedersi se il modello degli ecologisti tedeschi sia facile da esportare. Almeno nel sud del continente la risposta è un deciso no. In Francia, per esempio, lo scorso settembre il leader di Europe Ecologie les Verts, Julien Bayou, si è dimesso da ogni incarico dopo che la moglie lo ha accusato di violenze psicologiche. Dopo di lui è arrivata Marine Tondelier, che sogna «una Francia senza miliardari», persone che ha recentemente associato ai «vampiri».

Anni luce dai suoi cugini tedeschi, Tondelier tende a pescare fra gli elettori comunisti, socialisti e insoumis (ribelli). Insomma, i verdi d’Oltralpe del 2023 riportano alla mente il siparietto organizzato nel lontano 1989 dal «papà» dell’estrema destra francese Jean-Marie Le Pen quando in tv paragonò un cocomero agli ecologisti nazionali, «verdi di fuori e rossi di dentro» Non va meglio in Spagna dove Alianza verde è un partito sostanzialmente nuovo e marginale, nato da una costola dei social-populisti di Podemos.

Le défaillance degli ecologisti, però, sembrano limitate alle nostre latitudini. Subito più a nord, nella vicina Svizzera, il locale partito verde punta a entrare nel governo nazionale, espressione nel sistema elvetico dei principali partiti scelti dall’elettorato. A ottobre nella Confederazione si elegge un nuovo Parlamento e il presidente dei Verdi Balthasar Glättli ha assicurato che loro saranno la terza formazione più votata nel Paese In Austria, invece, i Verdi sono già al governo dal gennaio 2020. Alle elezioni precedenti aveva trionfato il partito popolare (Övp) con Sebastian Kurz con oltre il 37 per cento dei voti, ma i Grünen erano usciti dal voto con un solido 13,9 per cento, 10 punti in più rispetto al 2017. A Panorama il politologo dell’Università di Innsbruck Ferdinand Karlhofer, ricorda che «in passato i verdi austriaci, così come quelli tedeschi, erano molto legati alle piattaforme programmatiche dei socialdemocratici. In anni recenti invece si sono adattati anche ai programmi degli alleati moderati, dando prova di pragmatismo».

A Vienna, in particolare, i Grünen hanno mostrato fermezza nel chiedere le dimissioni di Kurz quando questi a ottobre 2021 è stato travolto da uno scandalo a base di mazzette e sondaggi truccati. Fermezza e lungimiranza: il vicecancelliere e ministro dell’Economia austriaco Werner Kogler dei Verdi non ha denunciato l’alleanza coi popolari ai quali ha chiesto di esprimere un nuovo cancelliere. Risultato: con Karl Nehammer nuovo capo del governo la Övp che fu di Kurz ha un po’ allentato la presa sul tema della riduzione dello stato sociale; mentre i Verdi ci hanno guadagnato in visibilità, concentrandosi poi sulla gestione della pandemia – hanno il ministero della Salute – e offrendo un «Klima-ticket» da 1.095 euro per far salire chi lo compra su ogni tipo di mezzo pubblico per un anno intero. Il loro successo brucia alla sinistra austriaca che non perde occasione di additare i Grünen come nemici dei lavoratori.

«In gran parte siamo sullo stesso cammino dei verdi tedeschi, seppure il sentiero non sia identico» osserva l’eurodeputato svedese dei verdi, Jakop Dalunde. «Forse quelli tedeschi sono un po’ più concentrati di noi sugli obiettivi pratici: ma l’obiettivo del partito a livello europeo è sostenere un percorso diverso per la società e non abbaiare alla luna. Finché eravamo al governo a Stoccolma (2014-2022) abbiamo spinto molto sulle rinnovabili e oggi siamo il più grande esportatore in Europa di energia verde». A causa della crisi energetica, i Grünen in Germania hanno ingoiato l’amaro boccone del prolungamento della vita di due centrali nucleari – delle ultime tre ancora in funzione – destinate a chiudere i battenti entro il 31 dicembre 2022. Flessibili ma non troppo, i verdi tedeschi si sono però rifiutati di ordinare nuovo combustibile, destinato a durare per molti anni. «Sarebbe stato darla vinta a chi propone un ritorno al nucleare in pieno stile» ha confidato a Panorama il dirigente di una azienda tedesca impegnata nello sviluppo del solare.

Anche in Svezia i verdi locali convivono con le centrali atomiche «che fino a qualche anno fa producevano il 50 per cento del mix energetico nazionale mentre oggi siamo scesi a un terzo» riprende Dalunde, ricordando che i Verdi svedesi non hanno imposto l’uscita dall’atomo ma disincentivato il suo sviluppo «chiedendo che le centrali pagassero per le ispezioni di sicurezza come per la gestione dei rifiuti». E l’ingresso della Svezia nella Nato? «Noi abbiamo votato contro ma ci siamo resi conto che nel Paese esiste una grande maggioranza a favore, per cui non ci metteremo di traverso. Il pragmatismo» conclude l’eurodeputato «è comunque una via stretta: essere disponibili al compromesso non significa che stai tradendo i tuoi ideali ma a volte è difficile farsi capire dagli elettori: è un esercizio complicato di leadership e comunicazione».

© Riproduzione Riservata