Appena rieletto, il presidente dovrà fare i conti al prossimo voto legislativo di giugno non solo con Marine Le Pen, che ha battuto alle presidenziali, ma soprattutto con il leader della sinistra più estrema e arrabbiata Jean-Luc Mélenchon. Che chiede esplicitamente agli elettori di appoggiarlo per diventare primo ministro e condizionare così l’Eliseo.
Il risultato delle elezioni francesi? Un Emmanuel Macron malinconico, anzi, meglio: «Mélenchonico». Ogni mattina, quando si fa la barba, il presidente vede nello specchio il volto del suo prossimo avversario, e cioè Jean-Luc Mélenchon, leader di La France insoumise e nuovo catalizzatore della sinistra arrabbiata d’Oltralpe. È vero che il 24 aprile Macron ha vinto le elezioni presidenziali, ed è verissimo che è ancora lì, all’Eliseo. Però ha perso molto terreno rispetto al 7 maggio 2017, quando a soli 39 anni, come candidato del suo partito neocentrista La République en marche, Macron aveva ottenuto due terzi dei voti contro il terzo incassato della sua antagonista, che anche in quel caso era stata Marine Le Pen. Cinque anni fa, dopo la vittoria, Macron aveva promesso di «fare muro contro la crescita dell’estrema destra». Ma l’impresa non gli è riuscita, tanto da aver lasciato per strada quasi 2 milioni di voti in cinque anni (da 20.743.128 a 18.779.809), mentre la Le Pen ne ha ottenuti 2,6 milioni in più (da 10.638.475 a 13.297.728).
È anche per questo se Macron, oggi, è malinconicamente costretto a non poter nemmeno tirare il fiato. Del resto, un appuntamento cruciale è già dietro l’angolo: le elezioni legislative del 12-19 giugno. E se la destra lepeniana punta a trasformarle nella sua rivincita, tanto da averle già ribattezzate «il terzo turno», le peggiori incognite della nuova partita vengono dal fronte opposto, la sinistra estrema. Insomma, è Mélenchon a far sospirare Macron, è Jean-Luc la causa delle sue peggiori inquietudini. Il capo della «gauche en colère» non ha perso un solo istante dalle presidenziali, e s’è gettato in una campagna elettorale serrata, dura, cattiva. Il pugno sinistro spesso alzato, il volto perennemente corrucciato, nelle imminenti legislative Mélenchon chiede esplicitamente ai francesi i voti per condizionare l’Eliseo e vuole a tutti i costi diventare primo ministro, aspettandosi anche l’inevitabile riconoscimento di leader indiscusso da tutti i partiti della sinistra.
Quella leadership, del resto, al primo turno delle presidenziali gli ha fatto incassare più del 20 per cento delle preferenze; e quella stessa leadership, al secondo turno, gli ha permesso di concedere la vittoria finale a Macron, quando un terzo dell’elettorato di La France insoumise ha votato per il presidente uscente al solo scopo di fermare la destra estrema della Le Pen. Così come in Italia il Partito democratico troppo spesso si lascia condizionare dai peggiori tic del Movimento 5 stelle, a partire dal suo giustizialismo, anche in Francia la sinistra moderata sembra costretta a seguire la deriva dell’estrema. È vero che, fin qui, il Parti socialiste – che con il suo candidato Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, alle presidenziali è rimasto sotto l’umiliante soglia del 2 per cento – non ha ancora detto sì a un’alleanza in vista delle legislative. L’accordo tra il Ps e La France insoumise pareva a portata di mano, ma a fine aprile la trattativa è stata sospesa. La direzione socialista s’è giustificata dello stop lamentando «l’assenza di una visione condivisa». Resta il fatto che Mélenchon, pur con tutti i vistosi difetti del suo estremismo, è probabilmente l’unica opportunità di vittoria per la sinistra unita. Tant’è vero che, prima di ritirarsi, il Ps era arrivato ad accettare e sottoscrivere molti dei 12 punti programmatici proposti da La France insoumise: i socialisti avevano detto sì all’aumento del salario minimo a 1.400 euro; avevano detto sì all’idea di bloccare l’età pensionabile a 60 anni, contrastando la proposta di Macron che vorrebbe alzarla a 62; avevano detto sì al ripristino della patrimoniale e sì addirittura alla «strategia della disobbedienza» ai trattati europei, che è il mantra di Mélenchon.
Si vedrà se il negoziato a sinistra riprenderà, e dove approderà. Quanto al malinconico Macron, finora è riuscito a evitare quella che i francesi definiscono «cohabitation», e cioè la situazione che vede un presidente di un colore politico costretto a convivere con un premier di colore opposto. Era accaduto abbastanza spesso, in Francia: è stato così nel 1986-88, ai tempi del duo composto dal socialista François Mitterrand e il gaullista Jacques Chirac; e poi ai tempi dell’accoppiata tra lo stesso Mitterrand divenuto presidente ed Édouard Balladur, nel 1993-95; e ancora è stata «cohabitation» tra Chirac e il socialista Lionel Jospin nel 1997-2002. Nelle prossime settimane, Macron farà di tutto per evitare quella sorte, che gli americani con il loro pragmatismo definiscono efficacemente «anatra zoppa».
Il presidente giura che La République en marche è pronta a confermarsi maggioranza assoluta in Parlamento. Ma non gli sarà facile ripetere il successo del giugno 2017, quando il suo partito ottenne 314 seggi su 577, costringendo all’opposizione i neogollisti (con 100 seggi), il Rassemblement lepeniano (8) e La France insoumise (17). Secondo un sondaggio di Le Figaro, solo un terzo dei francesi oggi voterebbe per La République en marche, mentre quasi metà degli elettori spera che all’Assemblea nazionale arrivi una maggioranza mista e non solo macroniana. La tendenza è confermata da un sondaggio di Canal+, in base al quale gli elettori che vogliono la «coabitazione» oggi sarebbero il 63 per cento. Tra quanti hanno votato Macron al ballottaggio, il 33 per cento spera che in giugno non ottenga la maggioranza assoluta.
Per tutto questo, oggi Mélenchon ha qualche seria possibilità di entrare in maggioranza e andare al governo. Anche Elina Lemaire, tra i più noti politologi francesi, sostiene che «l’esito di queste elezioni è infinitamente più aperto di quelle del 2017». E Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, prevede che Macron difficilmente ripeterà la vittoria di cinque anni fa: in quel caso, aggiunge, «la sua presidenza verrebbe subito azzoppata e dovrebbe dare vita a un governo di coalizione fortemente condizionato dall’estrema destra o, più facilmente, dall’estrema sinistra».
Se costretto alla «cohabitation», il presidente avrà seri problemi di linea politica in economia, ma soprattutto in campo internazionale. Macron, che pure nel 2019 aveva definito la Nato «vicina alla morte cerebrale», oggi è tra i più convinti sostenitori europei del Patto atlantico. Non soltanto è tra i più favorevoli all’invio di armi agli ucraini da parte dell’Unione europea, e all’inasprimento delle sanzioni per indebolire l’economia russa, ma propone di accrescere il bilancio della Difesa francese da 41 a 50 miliardi di euro in soli tre anni.
Mélenchon, invece, appartiene alla schiera degli «euroscettici» ed è un filo-putiniano della prima ora, che accusa gli Stati Uniti e la Nato di esercitare «rischiose pressioni» sulla Russia. E da sempre milita per il «non-allineamento» della Francia all’Alleanza atlantica. Insomma, è agli antipodi del presidente rieletto. Se alla fine vincerà, Macron può sempre consolarsi con quel vecchio, elegante detto francese che sostiene che «la mélancolie c’est le bonheur d’être triste»: la melanconia è la felicità d’essere tristi. n
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