Nel 1995, Benjamin Barber faceva uscire un suo influente saggio intitolato Jihad vs. McWorld. Trenta anni dopo, quel bipolarismo armato tra la cultura del fast food e quella del fondamentalismo islamico appare del tutto superato. È di queste settimane la notizia che Five Guys, hamburgheria americana con 1.700 locali in tutto il mondo, servirà carne halal in sei ristoranti francesi (precisamente a Lyon Part-Dieu, Paris Place de Clichy, Rosny 2, Créteil Soleil, Marseille Vieux-Port e Lille rue de Béthune). Il bacon, assicurano da Five Guys, sarà cotto a parte per evitare contaminazioni e inoltre nessuno di questi locali servirà bibite alcoliche.
In Francia non si tratta di una notizia sorprendente. Con l’aumentare degli abitanti di fede musulmana (che si stimano al 10 per cento della popolazione), il mercato si adegua. Secondo i dati a disposizione, nel 2025 il giro d’affari (difficilmente) calcolato è di almeno 7 miliardi di euro (con una valutazione massima di 12), contro i 5,5 miliardi del 2010. È il doppio del settore bio, che comunque riflette un cambiamento dei consumi più chiacchierato.
Quindi ecco che Carrefour, per esempio, ha appena acquisito il 10 per cento del capitale dell’insegna Hmarket, specializzata nell’alimentazione halal con un’operazione pari a 10 milioni. La catena E.Leclerc è più prudente, ma ha ammesso che è solo questione di tempo. Società che cambia, usanze culinarie che mutano? Non è così semplice.
Ma che cosa vuol dire, tanto per cominciare, halal? In arabo, halal significa «lecito», «permesso». Nel Corano, il termine è usato 12 volte per designare alimenti non proibiti e altre 7 volte con una negazione, per indicare ciò che invece non è permesso. Non è moltissimo, in verità. La tradizione giurisprudenziale successiva si è impegnata a definire meglio le prescrizioni alimentari in linea con la dottrina islamica. Oggi, per macellazione halal si intende carne di animali consentiti (non il maiale, quindi) trattata da un musulmano, che invoca il nome di Dio e poi recide, rigorosamente a mano, la gola, l’esofago e le arterie principali della bestia per permettere il deflusso del sangue.
In Europa, il regolamento (CE) n. 1099/2009 che disciplina, in particolare, la protezione degli animali durante l’abbattimento, prevede l’uccisione dell’animale solo dopo lo stordimento. Tuttavia, è presente una deroga con la quale l’Ue permette la macellazione rituale, come quella halal, secondo la quale «gli animali possono essere abbattuti senza essere precedentemente storditi, a condizione che l’abbattimento abbia luogo in un macello». Il giro d’affari globale è quotato in 1,27 trilioni di dollari. Si cadrebbe in errore, tuttavia, pensando a una innocua resistenza moderna di riti tradizionali secolari.
Nel suo saggio appena uscito in Francia, Le djihad par le marché. Comment l’islam radical s’empare du marché halal (ed. Odile Jacob), l’antropologa Florence Bergeaud-Blackler spiega che il mercato halal è «un’invenzione della fine del XX secolo, nata dall’incontro tra neoliberalismo e neofondamentalismo, prodotto di un capitalismo senza frontiere e del desiderio di una parte di mondo di conformarsi all’ordine della sharia».
Gli immigrati di origine araba degli anni Settanta, spiega l’autrice, non si facevano troppi problemi. Il fatto che fossero in un Paese non musulmano dava loro una scusante, alla bisogna si servivano nelle macellerie kosher (cioè ebraiche) che applicano riti simili e comunque, nel peggiore di casi, ce la si poteva cavare benedicendo la carne «impura» nel piatto.
Mangiare halal non era una pratica religiosa obbligatoria e comunque riguardava solo la carne. «Vent’anni dopo, i loro figli vengono nutriti con pappe e dolciumi halal, le confezioni di zuppa di verdure espongono adesivi halal, dentifricio e vaccini possono essere halal e moschee e app per iPhone insegnano che aderire all’halal permette di accumulare preziose buone azioni (hasanat) nel proprio “conto religioso”, che, alla fine, garantirà l’accesso al paradiso», scrive la studiosa.
Le cose cambiamo con la fine degli anni Settanta. Innanzitutto, le sciagurate leggi sul ricongiungimento familiare portano in Francia le mogli degli operai stranieri. Sono loro le custodi delle usanze culinarie. In quell’epoca si affacciano anche le prime organizzazioni salafite. Ma determinante è anche un evento geopolitico: nel 1979, in Iran sale al potere Ruhollah Khomeyni. Fino a quel momento, i Paesi arabi si accontentavano di qualche assicurazione di massima sulla macellazione all’estero e andavano molto sulla fiducia. È Teheran a cambiare le carte in tavola. In un discorso del marzo 1979, Khomeyni annuncia di voler bandire dal Paese ogni alimento non halal. L’ayatollah lancia una sorta di autarchia: d’ora in avanti, l’Iran produrrà da sé la carne di cui ha bisogno, seguendo tutte le prescrizioni religiose. La decisione drastica porta il Paese sull’orlo della carestia, quindi la Repubblica islamica si riapre al mercato estero, ma a una condizione: il regime invierà delle delegazioni religiose nei mattatoi per controllare la macellazione. La decisione ha un enorme impatto su Nuova Zelanda e Australia, principali fornitori di carne verso l’Iran. Il mondo sunnita, inoltre, fino a quel momento disinteressato alla questione, avverte da subito la concorrenza: se è l’Iran sciita a emettere il bollino di cosa è e cosa non è lecito rispetto ai precetti dell’islam, la vittoria culturale degli ayatollah è sancita.
Si mette dunque in moto un meccanismo che ci porta fino a oggi e che si riverbera sulle macellerie improvvisate delle banlieue, ma anche sui prodotti di largo consumo e persino di lusso, per attrarre il turismo altospendente degli emirati. Ed ecco che l’ascesa del fondamentalismo islamico va a incrociarsi con la globalizzazione turbocapitalista in gestazione. Non si tratta, quindi, di un mercato creato attorno a norme tradizionali. La Bergeaud-Blackler lo spiega bene: «Si ritiene spesso che i prodotti halal siano stati mercificati, che siano “cose religiose” trasformate in “prodotti di mercato”. […] Dobbiamo considerare le cose in modo diverso: i prodotti halal sono il prodotto del mercato halal, che nasce da un “accordo” tra diverse parti interessate – figure religiose, attori del mercato e autorità di regolamentazione – in altre parole, stakeholder: aziende di produzione, enti certificatori halal, consumatori musulmani, distributori specializzati, autorità sanitarie, associazioni di consumatori, Ong che denunciano la sofferenza animale e così via».
Che il mercato halal cresca parallelamente all’affermarsi della globalizzazione e al sedimentarsi dei primi flussi migratori, non deve stupire. Il mito dell’immigrato che si integra e si occidentalizza con il passare del tempo e delle generazioni è, per l’appunto, un mito. La realtà è che accade esattamente l’inverso.
Secondo un recente sondaggio Ifop, oggi in Francia, l’80 per cento dei musulmani intervistati si identifica come «religioso» o praticante. Un musulmano francese su quattro si definisce addirittura «estremamente» o «molto» religioso, rispetto a una media del 12 per cento fra tutti gli altri credenti. La tendenza è ancora più pronunciata tra i giovani musulmani: l’87 per cento dei giovani tra i 15 e i 24 anni intervistati si identifica come religioso, così come l’82 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni. Inoltre, il 42 per cento dei giovani musulmani intervistati approva pienamente o parzialmente le posizioni degli islamisti, 13 punti in più rispetto al 1998. Non stupisce che sul cibo halal, così come sul velo, il rigorismo tenda a peggiorare. Grazie anche a un’offerta commerciale che considera l’islamismo come una qualsiasi nicchia di mercato.
È chiaro che i problemi legati all’esplosione dell’halal sono molteplici, da quelli legati alla maggiore sofferenza animale al pericolo che dietro questo mercato si nasconda il lobbismo di ben precisi potentati. Per non parlare di un aspetto simbolico che sarebbe assurdo non evocare: non è infatti un caso che molti degli attentati di matrice islamica in Europa, in questi anni, abbiano previsto lo sgozzamento delle vittime. Nel 2016, l’Isis esplicitò questo riferimento, diffondendo un video nel primo giorno della Festa del sacrificio in cui alcuni prigionieri venivano introdotti in un macello come un gregge, venivano sgozzati e poi appesi per i piedi per dissanguarsi, come altrettanti agnelli. Ovviamente, diciamolo con chiarezza, questo non fa di ogni macello halal una centrale terroristica o di ogni immigrato un tagliagole. Ma è sempre meglio non sottovalutare la potenza dei simboli.
