C’è troppa demagogia sulle concessioni balnerari. Nonostante i «furbi della sdraio», la maggior parte degli operatori ha ragioni forti e specificità nazionali. Che, come accade per molte materie, l’Unione europea non considera. Intanto, gli appetiti economici crescono.
La norme che hanno disposto la proroga automatica delle concessioni balneari «sono in contrasto» con l’articolo 12 della direttiva europea e, dunque, «non devono essere applicate». Lo ha recentemente ribadito il Consiglio di Stato nella sentenza in cui accoglie il ricorso contro la decisione del comune di Manduria di prorogare fino al 2033 le concessioni demaniali marittime. Una sentenza che ha creato grande polemica dentro e fuori del Parlamento.
«La sentenza del Consiglio di Stato non ci sorprende. I giudici già nel 2021 avevano preannunciato che qualsiasi proroga successiva alle concessioni balneari sarebbe stata considerata da loro priva di efficacia. Noi però rivendichiamo la norma introdotta con la conversione in legge del ‘Milleproroghe’ e il diritto del Parlamento a legiferare. A maggior ragione dopo questo pronunciamento, invitiamo il governo ad accelerare sulla mappatura delle coste». Lo afferma il vicepresidente del Senato Gian Marco Centinaio (Lega), a commento della notizia della nuova sentenza del Consiglio di Stato sulle concessioni balneari.
Almeno in 30 mila, tante le famiglie che vivono grazie a ombrelloni e sdraio, confidavano nella hit anni Sessanta di Pino Focaccia: «Per quest’anno (almeno) non cambiare, stessa spiaggia stesso mare». Ci speravano i bagnini che rispettano la legge, lasciano ingresso e battigia liberi, offrono servizi; ci speravano anche quelli e sono – purtroppo – tanti che speculano sull’ombra e sui canoni troppo bassi, hanno prezzi da capogiro e ritengono il Mediterraneo proprietà personale. Invece, è arrivato alto il richiamo del Quirinale che impone a Giorgia Meloni sulle concessioni balneari: allìneati alla legislazione europea e alla sentenza del Consiglio di Stato che sancisce niente più proroghe.
Sonya Gospodinova, portavoce di Margrethe Vestager – la commissaria europea alla concorrenza e al mercato, danese radicale di sinistra, in Italia fin troppo nota visto che per un suo errore sono fallite quattro banche con migliaia di risparmiatori truffati – dichiara: «L’Ue richiede che le norme nazionali assicurino la parità di trattamento degli operatori, senza alcun vantaggio diretto o indiretto, promuovano l’innovazione e la concorrenza leale e tutelino dal rischio di monopolio delle risorse pubbliche». Perciò pronti a muovere contro l’Italia. Poi si accorge che è stata un po’ brutale e contempera così: anche Spagna e Portogallo sono sotto osservazione e questo «indica che si tratta di un settore molto importante economicamente e che la sua modernizzazione deve essere attuata».
Forse non serve aggiungere altro per sapere come mai Bruxelles non molla la presa sugli stabilimenti balneari: sono «molto importanti economicamente». Per chi? Questo è il punto. A fare i conti si scopre che in Italia sono 6.592 per circa 68 mila addetti, il fatturato medio è 260 mila euro e quello complessivo 1 miliardo e mezzo, con 15.415 concessioni che al 94 per cento non superano l’ettaro. Non pare un gran business. Se però si considera che è l’innesco del turismo estivo, i numeri cambiano: il 6,4 per cento del Pil pari, malcontati, a 110 miliardi di euro.
Ce n’è abbastanza per chiedersi se in Europa non ci siano appetiti per le spiagge italiane che vanno al di là del rispetto della legge. A meno che Bruxelles anche stavolta non ignori la specificità italiana. È già successo con la direttiva sulle case verdi. Non sanno in Europa – o fingono di non sapere – che 8 italiani su 10 sono proprietari di casa e che di questi, 6 su 10 abitano in Comuni al di sotto di cinquemila abitanti, nella stragrande maggioranza borghi storici dove le abitazioni sono in pietra. Se si realizza il cappotto termico su un edificio così, diventa inabitabile per l’umidità. Eppure per l’Unione tutti i tetti sono uguali. Del pari ci toccherà un eurocrate per bagnino; a Bruxelles non sanno che il turismo del mare è nato qui e molti nostri lidi sono monumenti storici. Bisognerebbe che il ministro dei rapporti con l’Europa Raffaele Fitto (Fratelli d’Italia) preoccupato perché teme una condanna dalla Corte europea di giustizia e che per farci pressione ci blocchino i fondi del Pnrr, invitasse Ursula von der Leyen a fare una gita a Livorno.
Lì, tra lo scoglio della Regina – Accademia Navale – e la terrazza Mascagni, ci sono i bagni Pancaldi: gli eredi della prima concessione al mondo che nel 1781 il Granduca di Toscana assegnò a Paolo Baretti, inventore del turismo balneare. Una quarantina di chilometri più a nord, a Viareggio, c’è il bagno Balena: stabilimento liberty che con le ceramiche di Galileo Chini è un unicum. Affacciandosi a Palermo, poi, troverebbe il Mondello, quartiere balneare art nouveau. Possibile che tanta storia e ricchezza culturale debbano essere appiattite nella (contestatissima fin dall’origine e con qualche attuale contraddizione) direttiva Bolkestein?
Eppure Fitto, invece di far presente all’Europa che è miope, ha convinto Meloni – dopo la rampogna di Sergio Mattarella sul Milleproroghe – a rimettere mano al decreto. La soluzione che si sta cercando è – dopo aver eliminato lo slittamento delle concessioni al 2024 – salvaguardare quelle assegnate prima del 2010, quando l’Italia recepì la direttiva Bolkestein; per le più recenti dare la prelazione a chi già le ha. Ovviamente c’è da superare l’obiezione forte di Forza Italia e Lega che con Maurizio Gasparri, Matteo Salvini e Gian Marco Centinaio hanno continuato a dire giù le mani dai balneari. Si tratta di far valere una specificità italiana che non può avere reciprocità in Europa. Le ragioni sono banalmente geografiche. Lo sanno benissimo gli spagnoli che nel 2013 hanno varato la nuova Ley de Costas – approvata dall’allora Commissaria europea alla concorrenza Viviane Reading – che rende ereditabili e negoziabili le concessioni e le allunga fino a 75 anni. I portoghesi hanno concessioni che durano 75 anni e con addirittura la prelazione a scadenza.
In Croazia – neo membro dell’Unione – le concessioni vanno da 5 a 99 anni e non possono essere revocate prima di 50 anni se è stata costruita una struttura di servizio. La Grecia, nel dopo-Troika, ha dovuto mettere all’asta il suo turismo che ora è nelle mani di tedeschi, cinesi, olandesi e francesi, e le spiagge vengono date in leasing. La Bolkestein pone a suo cardine la reciprocità. Parliamo del mare. In estate la temperatura dell’acqua in Italia è in media di 26 gradi, in Svezia 16, in Olanda 17, in Francia atlantica 15, in Germania 18. In Danimarca, patria della Commissaria Vestager, un’ipotetica stagione balneare potrebbe durare dal 30 giugno al 5 agosto. In Sicilia va da marzo a novembre.
Ha più interesse e vantaggio un danese a sfruttare una concessione italiana o un italiano a sfruttare la spiaggia di Skagen (stupenda, peraltro) dove in agosto si arriva giusto a 8 gradi? Fabrizio Licordari, presidente di Assobalneari-Confindustria, sostiene che l’Italia dovrebbe far valere la sua specificità abbandonando «il linciaggio che ci stanno facendo. Ci trattano da evasori per i canoni bassi, da monopolisti, ma noi svolgiamo un compito pubblico essenziale: sicurezza in mare e tutela ambientale, paghiamo tante tasse e non abbiamo più certezze. Un’impresa balneare ogni cinque attive nel 2021 è nata poi nell’ultimo decennio; tra Calabria, Puglia, Sicilia e Campania, uno stabilimento su due è sorto dopo il 2010. Se il governo si rimangia la proroga sarà lotta durissima».
E comunque ci sono sempre i furbi della sdraio che rovinano la reputazione a tutta la categoria. Anche loro hanno goduto della distrazione dei nove governi che si sono succeduti dall’entrata in vigore della «direttiva» senza fare nulla. A Bruxelles non capiscono, ma a Roma hanno fatto orecchi da mercante. Forse perché la norma Ue fu, all’approvazione, contestatissima. Soprattutto da sinistra. Un esempio? Ciò che il Qatargate ha unito la Bolkestein divise: Antonio Panzeri, nel 2006 eurodeputato Ds, votò «sì», Marc Tarabella, allora socialista, votò «no» così motivando: «La solidarietà e i regolamenti lasciano il posto alla concorrenza tra i Paesi e i popoli: è uno sviluppo che giudico negativo». Forse è davvero un’Europa balneare.