Il responsabile della Salute Roberto Speranza ha collezionato, nell’ultimo anno, una serie di errori e negligenze. Dall’assenza di un piano pandemico (come aveva denunciato l’Oms in un report poi insabbiato) al lockdown esasperato e alle chiusure a oltranza delle scuole, dal primato in Europa del numero di morti a un inadeguato programma vaccinale. La sua stella ora è in declino e in tanti ne chiedono le dimissioni. Ma lui resta lì, a fianco del premier. Pronto a sbagliare anche le prossime mosse.
Non inganni «quella faccia un po’ così» e «quell’espressione un po’ così», come cantava Conte. Mica Giuseppe, l’ex premier che lo volle al suo fianco, bensì Paolo, l’insuperabile cantautore. Insomma, non intenerisca l’aria da eterno cane bastonato. O quella da scolaretto studioso ma emotivo palesata nelle conferenze stampa accanto al premier, Mario Draghi, che lo scruta clemente e sardonico. Non lasciatevi intenerire. Perché siamo ancora nel pieno di un’epocale pandemia. E Roberto Speranza resta ministro della Salute, malgrado tutto.
Dalle serrate a oltranza al dilettantesco piano vaccinale. Non ne azzecca una. Eppure è sempre lì, come l’Ercolino sempre in piedi: il misirizzi che la Galbani regalava ai clienti più fidati. Giuseppi intanto, mentre assiste inerme allo sfascio dei Cinque stelle, è tornato laddove mai avrebbe immaginato: all’insegnamento universitario. E il fu supercommissario all’emergenza, Domenico Arcuri, s’è asserragliato nel suo panoramico ufficio di Invitalia, che presto però potrebbe esser costretto ad abbandonare: è accusato di peculato dalla procura di Roma nell’inchiesta sulle mascherine cinesi. Invece Speranza, il terzo maldestro moschettiere, barcolla ma non molla.
Cominciamo dalla fine, allora. L’indagine della procura di Bergamo: partita dalla mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, svela adesso dilettantismi e opacità. «È come se il ministero della Salute fosse un insieme di particelle non comunicanti tra di loro» spiega il procuratore, Antonio Chiappani. «Senza una regia, con domande da fare sempre ad altri». «Potere liquido» lo definisce il magistrato.
Omissioni. Negligenze. E nessun piano pandemico. Lo sottolinea, quasi un anno fa, il report dei ricercatori dell’ufficio europeo dell’Oms a Venezia: «Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell’Italia al Covid-19». Definisce la gestione della pandemia «caotica e creativa».
La relazione viene pubblicata il 13 maggio 2020. Il giorno dopo sparisce su pressione di Ranieri Guerra, direttore vicario dell’organizzazione, indagato per false dichiarazioni. Dalle mail sequestrate dai pm emerge chiaramente: la censura è un favore al governo Conte. Bisogna disinnescare la «bomba mediatica». Guerra, in quel momento, è però a capo di un organismo che dovrebbe tutelare la salute mondiale, mica la zoppicante reputazione di un esecutivo. Ma si cosparge comunque il capo di cenere. Non è riuscito a silenziare il rapporto. Così scrive a Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di Sanità: «Ho mandato scuse profuse al ministro». Qualche giorno più tardi, gli riferisce anche dell’incontro con Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto di Speranza. Si sarebbe discusso proprio del report: «Dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla» riferisce Guerra. «Se entro lunedì nessuno ne parla, vuol farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo assieme. Sic».
Non occorre essere dei retroscenisti d’assalto per dubitare: Zaccardi ha informato Speranza di voler insabbiare quella relazione? «Non sono in grado di dire se sapesse o non sapesse» risponde Maria Cristina Rota, procuratore aggiunto di Bergamo. «Noi abbiamo sentito il ministro in due occasioni. Ma, in quel momento, non eravamo in possesso delle chat. Immagino però che sia dovere del capo di gabinetto e dei collaboratori riferire al ministro…».
L’indagine, insomma, sembra puntare ora sui cortocircuiti politici. Speranza intanto, dopo essere stato riconfermato da Draghi, in parlamento è cinto dall’assedio di Fratelli d’Italia. A Palazzo Madama è arrivata la mozione di sfiducia del partito di Giorgia Meloni, che ne attacca «l’incompetenza». Ovvero: «Dalla gestione fallimentare e disastrosa della pandemia alle imprese stremate a causa delle chiusure insensate e continue». Certo, il suo è l’unico partito rimasto fuori dalla maggioranza.
Alla richiesta di dimissioni si accoderebbero volentieri pure la Lega e Italia Viva. Solo che la rimozione di Speranza, difeso strenuamente dal Pd, farebbe implodere la maggioranza. E Draghi non può permetterselo. Soprattutto adesso, nel bel mezzo di una tormentata campagna di vaccinazione.
Così, il ministro resta immeritatamente al suo posto. Schermaglie d’aula a parte, sembra però ridimensionato dai fatti. La linea ultrarigorista, serrate continue e nessuna concessione, è stata sconfessata dal premier. A Speranza non è servito nemmeno l’incondizionato appoggio di Brusaferro, con cui forma da tempo un formidabile tandem di cerberi. A loro si contrappongono Draghi e Franco Locatelli, nuovo coordinatore del Comitato tecnico scientifico dopo il repulisti dello scorso marzo.
Già: il consesso di super esperti che ha teleguidato il ministro è stato ridimensionato, nel numero e nei poteri. Membri dimezzati, niente giornali e talk show, basta dittatura sanitaria. Decide il governo, non l’indice Rt. Insomma, è la fine del «metodo Speranza». Quello enunciato da lui stesso all’inizio della pandemia: «Le misure da assumere contro il coronavirus le stabiliscono gli scienziati e non la politica». L’esatto contrario di quel che pensa Draghi. Invece, per quasi un anno, ogni scelta del Conte bis è passata dalle sapienti mani del Cts. E non solo. Quando il virus arriva in Italia, Speranza chiama subito accanto a sé Gualtiero Ricciardi, in arte Walter, già nel board dell’Oms. Fin dalle prime dichiarazioni, il professore esonda. Prima critica i tamponi di massa, che invece si riveleranno decisivi in Veneto. Poi garantisce: «Alle persone sane le mascherine non servono a niente». E il ministro, diligente, riferisce agli onorevoli colleghi: «Considero le mascherine in parlamento non fondate sul piano scientifico».
D’altronde, cosa poteva saperne lui? A soli 42 anni, è già una specie protetta: arrembante incrocio tra Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. Di conseguenza, Speranza è diessino, poi piddino, infine fondatore del microscopico Articolo Uno assieme alla coppia di illustrissimi numi tutelari. E quando Giuseppi, alle prese con la composizione del governo giallorosso, deve ricompensare il partitino post-comunista, arriva l’ideona: cosa c’è di meglio, in ossequio alla peggior visione spartitoria, che affidargli l’ininfluente ministero della Salute? S’avanzi Robertino, allora. Il suo predecessore, la pentastellata Giulia Grillo, una specializzazione in Medicina legale almeno ce l’aveva. Lui no: laurea in Scienze politiche. Accompagnata da un’unica esperienza amministrativa: assessore all’Urbanistica nella natia Potenza. Per il resto, il prescelto è un politico di professione. Sempre in fondo a sinistra. Come il suo Articolo Uno.
Gente di sani principi. Con un chiodo fisso: il lavoro per tutti. Inevitabile ossequio all’incipit della costituzione, che dà persino il nome al partito. Non a caso, rivela Panorama ad aprile 2020, appena varcata la soglia del dicastero, Speranza non dimentica i compagni. Ingaggia l’ex deputato Alfredo D’Attorre quale esperto di etica e bioetica, in cambio di 36 mila euro all’anno. Stesso compenso per il novarese Carlo Roccio, già candidato dal Pd alle Europee del 2014, che diventa consulente per la biologia molecolare e le biotecnologie. Di analisi dei dati si occupa invece Armando Cirillo, ex direttore del centro studi Nens, fondato da Bersani. Anche Giovanni Bissoni, chiamato a capo della segreteria tecnica, vanta solidi rapporti lo smacchia-giaguari, di cui è stato assessore alla Sanità in Emilia-Romagna. Fino a Saccardi, il capo di gabinetto finito nelle carte dell’inchiesta di Bergamo. Ricoprì lo stesso ruolo, ancora per il solito Bersani, quando fu ministro dello Sviluppo economico, all’epoca delle «lenzuolate».
Grazie pure alla fidata squadra, Robertino è l’impavido condottiero che, mentre la pandemia avanza, indica la rotta ai cittadini. Comincia il 2 febbraio 2020, condannando gli allarmismi di certa stampa: «Le scelte che stiamo facendo devono rassicurare il nostro paese, non bisogna avere paura. Siamo pronti anche a scenari che possono avvenire, ma che noi escludiamo totalmente». Di conseguenza, commissiona un imperdibile spot televisivo: «Non è affatto facile il contagio» spiega Michele Mirabella, l’incolpevole conduttore assoldato. Sbandate iniziali. Adesso, con la solita prosopopea, tenta perfino l’auto assoluzione: «Eravamo di fronte a una novità e non c’era il manuale delle istruzioni». Beh, in realtà il manuale esisteva. E si chiamava piano pandemico. Solo che era fermo al 2006, nell’indifferenza generale.
Comunque, dopo i primi svarioni, Speranza inverte bruscamente la rotta. Per diventare il più inflessibile della compagine governativa: l’uomo chiamato lockdown. Mai uno sgarro. Nemmeno uno spiraglio. Chiudere tutto e rinchiudere tutti, a oltranza. In perfetta sintonia con il suo partito, statalista e anti imprese. Nel frattempo, medici e ospedali vengono lasciati soli in prima linea a combattere il virus, senza nemmeno le mascherine. E quando, la scorsa estate, il virus rallenta la corsa, il ministro comincia a dedicarsi al capolavoro che, in autunno, sarebbe fugacemente arrivato in libreria: Perché guariremo. Dai giorni più duri a una nuova idea di salute. Un racconto, scritto in prima persona per Feltrinelli, delle «ore drammatiche della tempesta». Prosa toccante e lungimirante: «Dopo questa esperienza nessuno di noi potrà dire “non lo sapevo”. Non possiamo più permetterci di essere colti disarmati di fronte alla violenza di una eventuale nuova pandemia».
Solo che a fine ottobre, quando viene dato alle stampe il volume, arriva la seconda ondata. E noi siamo ancora in alto mare. Nessuno, a partire da Speranza, ha pensato di preparare gli ospedali. Mancano persino le terapie intensive. Così, il capolavoro del ministro viene ritirato anzitempo dalle librerie. Non prima però di aver rischiarato, per un attimo, i nostri orizzonti: «Ben presto» assicura in una delle pagine maggiormente ispirate «la linea dura dell’Italia non sarà più una scelta discutibile da valutare, ma un modello da seguire».
Difatti, continuiamo a vantare in Europa due primati assoluti: numero dei morti e giorni di chiusura delle scuole. Speravamo almeno nei vaccini. Ma Speranza, incredibilmente, è riuscito a sbagliare pure il piano vaccinale. A differenza degli altri paesi, l’Italia ha sfoggiato ancora una volta il suo estro sanitario: insieme a over 80 e ospiti delle residenze per anziani, la priorità viene data subito a operatori sanitari, insegnanti, forze dell’ordine. Seguono: avvocati, magistrati, docenti universitari. O gli psicologi, magari trentacinquenni. Quelli stigmatizzati da Draghi: «Con che coscienza un giovane salta la lista, sapendo che espone a rischio concreto di morte persone oltre i 75 o fragili?».
Ha perfettamente ragione, il premier. Avrebbe però dovuto prendersela soprattutto con il «giovane vecchio», come lo chiamavano nel Pd, che spesso gli sta accanto in conferenza stampa. Quello con la faccia un po’ così e l’espressione un po’ così. Speranza, il ministro senza speranza.