Una campagna vaccinale in favore dei Paesi più poveri grazie a un siero «made in Turchia». Il presidente Erdogan vuole sottrarsi all’isolamento internazionale e rilanciare l’immagine del Paese, prostrato dalla pandemia e dalla crisi economica.
Il tempo dei tulipani è iniziato e lo splendore della primavera a Istanbul sembra ridimensionato solo dalla spiritualità del mese sacro del Ramadan. Ma, osservando bene le strade della città, si capisce chiaramente come qualcosa non vada, nonostante il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, faccia di tutto per mascherare la realtà. È un leader sempre più ambizioso, alla guida di un Paese sempre più ingombrante sulla scena internazionale e pericoloso per l’Occidente, che, però, rischia di cadere come un gigante con i piedi di argilla.
Erdogan, anche durante questa pandemia, ha premuto sull’acceleratore per ampliare la sfera di influenza della Turchia a livello internazionale e adesso, proprio grazie al Covid-19, sta cercando di dare scacco matto a molti Stati non solo nell’area mediorientale. In autunno, infatti, la Mezzaluna potrebbe mettere sul mercato il proprio vaccino nazionale, che per i Paesi più poveri sarà offerto «alle condizioni più appropriate».
A dirlo è stato il Sultano in persona, mentre dalla presidenza della Repubblica hanno fatto sapere che la Turchia è pronta a offrire il proprio antidoto con licenza libera di utilizzo a quelle nazioni che non si sono potute permettere l’acquisto di dosi a sufficienza per immunizzare la popolazione. «L’ingiustizia durante questa pandemia è ancora più evidente» ha sentenziato Erdogan. «Con il problema della vaccinazione è diventata ancora più terribile. Ci sono Paesi che hanno vaccinato quasi tutta la loro popolazione e miliardi di persone non hanno accesso nemmeno alla prima dose».
Un alto ideale umanitario, che nasconde però motivi ben più pragmatici. L’obiettivo è penetrare con la scusa del vaccino in Paesi la cui posizione geografica, composizione religiosa o potenzialità a livello di investimenti può rivelarsi particolarmente strategica per la Mezzaluna. Fra questi ci sono certamente Stati dell’Africa e del Sudamerica, ma anche territori in Asia Centrale, dove la Turchia da tempo cerca di strappare il monopolio alla Russia.
Stando alle fonti ufficiali, la prima fase della sperimentazione si è conclusa con successo. Le dosi del vaccino nazionale sono state somministrate ai volontari. «Fra di loro» ha spiegato Fevzi Altuntas, capo dell’ospedale oncologico di Ankara, che sta seguendo una parte del progetto, «c’è anche il ministro per l’Industria, Mustafa Varank. Su tutte le persone, per il momento non sono state registrate reazioni serie a 24 ore dalla prima iniezione».
Il siero è stato prodotto e sviluppato da una coppia di medici turchi, Mayda e Ihsan Gursel. «Si tratta di un prodotto molto innovativo» ha garantito Altuntas «in grado di poter essere rimodulato rapidamente e quindi adattato facilmente alle variabili del Covid che potrebbero sorgere in futuro».
A giugno inizierà la seconda fase, che vedrà coinvolti altri 200 volontari, accuratamente selezionati, per quello che è pronto per essere annunciato al mondo come un trionfo senza precedenti. «Non siamo ancora in grado di dare una data precisa per la messa in circolazione» ha concluso Altuntas. «Ma se tutto va bene, sarà per il prossimo autunno».
Purtroppo, come spesso succede quando si parla di Turchia, accanto ai sogni di gloria bisogna fare i conti con la realtà, questa volta particolarmente drammatica. Nel Paese i contagi risultano in forte salita. Tutto questo nonostante la campagna vaccinale proceda a un ritmo abbastanza spedito e – secondo le fonti ufficiali – sia stato immunizzato oltre il 25 per cento su una popolazione di 85 milioni di abitanti. Ma Ankara, per il momento, sta utilizzando solo il vaccino cinese Sinovac, proprio quello su cui Pechino, con sospetta calma, ha avanzato dei dubbi per quanto riguarda la sua efficacia.
Nei prossimi mesi dovrebbe essere avviata sul territorio nazionale la produzione del russo Sputnik V, ma difficilmente potrà impattare sulla situazione nel breve termine. In secondo luogo, la verità è che le dimensioni reali della pandemia nel Paese sono state tenute nascoste per mesi interi.
Da marzo a novembre 2020, la Mezzaluna ha avuto una curva dei contagi che sostanzialmente era una linea retta, con due mila nuovi casi al giorno. Poi la situazione ha iniziato a presentare sbalzi e nel mese di aprile, alla vigilia dell’inizio della stagione estiva, si trova a fare i conti con 40-60 mila nuovi casi al giorno e tutto il territorio nazionale sottoposto a una zona rossa praticamente impossibile da monitorare.
Negli ospedali va anche peggio. Le terapie intensive di Istanbul hanno superato il 70 per cento della capienza. Così, mentre in gran parte d’Europa si torna timidamente a una normale quotidianità, per la Turchia è tempo di nuovi lockdown, con i medici che accusano il governo di avere attuato misure restrittive troppo blande nei mesi scorsi, favorendo la diffusione incontrollata del virus. «Possiamo parlare di “omicidio sociale”» denuncia Sebnem Korucu Fincanci, presidente dell’Associazione medici turchi. «Sapevano che la mancanza di misure avrebbe portato nuovi casi e nuove morti, ma non hanno fatto nulla per evitarlo».
Gli fa eco un dottore di un ospedale di Istanbul che a Panorama chiede l’anominato. «I dati sulle persone infettate e sui decessi non sono realistici. Le strutture sono sotto pressione e per lungo tempo persino i sanitari non erano equipaggiati in modo adatto per evitare il contagio. Se la curva continua così, non potranno essere curati tutti». Ufficialmente, la Turchia conta quasi cinque milioni di persone che hanno contratto il virus e poco meno di 40 mila morti. Una cifra che, secondo il quotidiano Birgun, andrebbe moltiplicata per quattro. E il rischio è che il controllo dell’epidemia, nonostante la propaganda, possa sfuggire definitivamente di mano.
Oltre al Covid-19, la Mezzaluna deve fare i conti con una delicatissima situazione economica. La lira turca è oggetto ormai da mesi di una forte svalutazione contro l’euro e il dollaro, che sta mettendo in forte difficoltà gli imprenditori del Paese. A questo va aggiunta una politica alquanto «rilassata» sui tassi di interesse, che vengono tenuti al minimo da molto tempo per favorire il consumo interno e con esso la crescita economica, ma che dall’altra parte crea grossi problemi alla stabilità dei prezzi, con una preoccupante inflazione a due cifre. Esiste poi il nodo delle riserve valutarie della Banca centrale, che ha cambiato quattro governatori in due anni, tutti uomini graditi al presidente Erdogan, e però adesso si ritrova con appena 10 miliardi di dollari nelle casse; in molti nell’opinione pubblica si chiedono come allora siano stati spesi i 128 miliardi, sempre in divisa americana, usciti dalla Merkez Bankasi nel periodo pandemico.
La versione ufficiale è che sono serviti a pagare il deficit delle partite correnti e compensare la fuga dei capitali, ma l’opposizione in Parlamento sospetta anche un uso improprio delle riserve. Ennesimo problema per il presidente turco, che anche sull’arena internazionale si sta giocando il tutto e per tutto per riaffermare il ruolo del Paese, si veda l’impegno militare in Siria e Libia. Gli ostacoli da superare, però, sono molti, soprattutto ora che gli Stati Uniti di Joe Biden si sono messi di traverso, riconoscendo con una posizione inequivocabile il genocidio armeno del 1915 e mandando a Erdogan il messaggio che la sua politica estera sempre all’attacco ha raggiunto il limite. Intanto, per via diplomatica, Ankara tenta una difficile ricucitura con Grecia ed Egitto, rivali economici nello sfruttamento di risorse nel Mediterraneo. Ma da parte di Atene e del Cairo c’è prudenza verso la Turchia. Troppe volte ha dato prova di essere aggressiva quanto inaffidabile.