Il presidente turco ricuce con i Paesi del Golfo e Israele, visti i suoi problemi interni. Un nuovo corso che interessa anche l’Italia.
D’un tratto, nel vasto e complesso mosaico del Mediterraneo allargato, le tessere hanno preso a muoversi vorticosamente. La Turchia sta perseguendo una strategia di distensione con le grandi potenze del Golfo, che potrebbe riportare la quiete nel Mediterraneo – Libia compresa. Ma sbaglia chi pensa che Erdogan scaricherà la Fratellanza musulmana, la formazione politica di rigida osservanza islamica. Al centro di tutto, ancora una volta, c’è lui: Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco continua a fare notizia.
Eccolo, a ridosso della festa ebraica dell’Hannukkah, a spendersi per il rilascio di turisti israeliani arrestati con accuse di spionaggio. A ringraziare pubblicamente Erdogan sono addirittura i massimi vertici di Israele, il premier Naftali Bennett e il presidente Isaac Herzog. Lo scorso novembre, poi, l’incontro ad Ankara tra Erdogan e il «crown prince» di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, suscita ancora più clamore. L’incontro fa seguito agli incontri con il presidente egiziano Abdel-Fattah el-Sisi e con il potente National security adviser emiratino, Sheikh Tahnoun bin Zayed Al Nahyan.
L’attività di ricucitura diplomatica di Erdogan è davvero intensa e dà nell’occhio. In molti la attribuiscono alle difficili condizioni dell’economia turca. Il presidente, in altre parole, ha accantonato i livori del recente passato perché oggi ha bisogno di maggiore sostegno e non può tenere troppi fronti aperti, specialmente nel mondo sunnita. È vero che le elezioni presidenziali avranno luogo solo nel giugno 2023, ma a oggi i sondaggi non offrono gran conforto a Erdogan.
Uno studio dello Yoneylem Social Research Center mostra che il partito del presidente turco, l’Akp, è testa a testa con il principale partito d’opposizione, il Chp. Per lui va decisamente meglio nelle rilevazioni di MetroPoll, ma è un fatto che i suoi livelli di popolarità siano molto lontani da quelli delle presidenziali del 2018.
Il Sultano continua come sempre a fare affidamento sul suo granaio di voti, cioè le zone centrali dell’Anatolia che ne hanno sempre sostenuto l’ascesa, a differenza delle aree più cosmopolite e secolarizzate della regione di Marmara. Dal 2018, a fronte di un indebolimento drastico della lira turca e di una forte crescita del debito pubblico accelerato dalla pandemia, ha sempre provato a «compensare» i problemi economici della Turchia con una marcata esuberanza geopolitica. Israele, Egitto, Emirati: i nemici di un tempo sono oggi dei «quasi-amici».
Un rovesciamento drastico, che risponde alle nuove esigenze di Erdogan e che consolida un processo in atto da tempo. Basti pensare alla solennità dell’incontro dei capi di Stato del Consiglio di cooperazione del Golfo, che si è svolto in Arabia Saudita a inizio gennaio 2021 e ha messo fine alle ostilità con il Qatar, che della Turchia è da molti anni il «gemello siamese» geopolitico. A contraddire un po’ tale tendenza, casomai, è la notizia che Metin Gürcan, un analista militare turco che è sempre imprigionato con l’accusa di essere una spia italiana.
La questione tiene banco perché in Libia, nel caos per le elezioni, l’Italia e la Turchia hanno a lungo giocato sullo stesso versante, mentre altri – egiziani e francesi – hanno scelto di sostenere il generale Khalīfa Belqāsim Haftar. È l’Italia il proverbiale granello di sabbia che può inceppare il processo di distensione nel Mediterraneo? Le parole di Draghi su Erdogan (un «dittatore di cui si ha bisogno») lì per lì fecero un effetto, ma non è il caso di esagerarne la portata. I fatti dicono che i rapporti tra Roma e Ankara sono ottimi. Anche Sergio Mattarella, in uno degli ultimi viaggi di Stato all’estero prima della fine del suo settennato, ha indirettamente rimarcato il legame forte con la Turchia tramite una visita solenne in Algeria, tradizionale alleato di Ankara.
Fin dove si potrà spingere Erdogan in questa distensione? La stampa israeliana se lo chiede da tempo. L’aspettativa più realistica è che punti a ripristinare rapporti sereni con gli emiratini e i loro vassalli nel Mediterraneo. La vera questione è se il presidente sia anche disposto a scaricare la Fratellanza musulmana, che per anni è stato uno strumento di «soft power» turco. La Fratellanza è il principale brand dell’Islam politico, usato per destabilizzare «dal basso» con movimenti popolari le verticistiche monarchie del Golfo e i loro Paesi amici in Nord Africa.
In Tunisia, dove il partito di riferimento della Fratellanza è stato sbalzato dal potere, Erdogan ha glissato. Sul dossier tunisino, dunque, la formazione politica non ha avuto il sostegno del presidente. Ma forse la ragione va cercata altrove: non si può ignorare la prossimità geografica della Turchia alla Sicilia, nelle cui vicinanze gli Stati Uniti non vogliono micce geopolitiche accese. Il Sultano cambierà, ma non quanto confidano nel Golfo.