Stemperare le tensioni con emiratini, sauditi e israeliani. E collaborare nel Mediterraneo «allargato». Perché ora Ankara punta più a Est.
Per la comunità degli analisti geopolitici, è ancora una volta la Turchia l’oggetto misterioso da scrutare per capire che cosa accadrà nei prossimi mesi. Ecco perché.
Primo. La diplomazia turca degli ultimi mesi si è contraddistinta per gesti distensivi e aperture rispetto a Paesi con i quali per molti anni c’è stato il gelo. Erdogan ha «riaperto i boccaporti» con emiratini, egiziani, sauditi e israeliani. In Europa, questo elenco di riappacificamenti non comprende invece Grecia e Francia, con cui i rapporti sono pessimi, mentre nel Caucaso rimane molto problematico il rapporto con l’Armenia.
Secondo. La strategia di distensione nel Golfo potrebbe tradursi in una maggiore stabilità nel Maghreb, teatro di frequenti conflitti per delega tra i turchi e le altre potenze. Di sicuro ci contano i tedeschi, potenti partner dei turchi che negli ultimi tempi hanno molto accentuato la loro presenza industriale in Algeria e Marocco. La prima intrattiene rapporti storicamente molto stretti con la Turchia, che sull’Algeria poté contare anche nelle fasi in cui la Turchia si trovò a giostrare tra la guerra in Siria, i rapporti burrascosi con l’Egitto e le tensioni con sauditi ed emiratini. Il secondo, invece, è una monarchia saldamente legata alla casa reale saudita. Sono gli analisti tedeschi della Swp, il think tank di politica estera del governo federale tedesco, a ricordarci in un ben documentato studio del giugno scorso (Unpacking Turkey’s Security Footprint in Africa) che i turchi hanno firmato significative forniture di armamenti sia ai marocchini che agli algerini.
Terzo. Sempre in Africa, ma più a sud, nel Sahel, la Turchia ha chiaramente adottato una strategia di profondità, stringendo importanti accordi con alcuni dei principali attori statali di quella fascia territoriale. Rientrano in questo quadro la cooperazione con la Nigeria sui flussi illegali di armi, l’assistenza economico-finanziaria alla Mauritania per il contrasto al terrorismo, nonché un accordo di cooperazione militare con il Niger. C’è un dato, tra i tanti, che rende l’intensità dello sforzo del Paese in Africa: il numero delle ambasciate africane in Turchia. Nel 2008, ad Ankara se ne contavano appena una decina. Nel 2021 erano 37, quasi quadruplicate. Un altro indicatore è il volume d’affari delle vendite militari. L’assemblea generale degli esportatori turchi, una sorta di nostrana Ice per la promozione di prodotti nazionali all’estero, ha reso noto che le esportazioni nel comparto difesa e aerospazio verso l’Africa erano pari a 83 milioni di euro nel 2020, ma sono balzate a 461 milioni di dollari nel 2021. In questo caso i numeri sono addirittura quintuplicati, e riflettono il forte interesse da parte dei governi di quell’area per i prodotti di Ankara (droni ma non solo).
Quarto. È già partita la campagna elettorale per le elezioni presidenziali turche del 2 luglio 2023. L’avvio della campagna coincide a detta di molti esperti con il sanguinoso attentato del 14 novembre scorso nel centro di Istanbul. L’attacco è costato la vita a sei persone, e ha attirato molta attenzione nel resto del mondo. Il ministero dell’Interno, dopo indagini molto rapide, ha puntato con decisione il dito contro i curdi, ed effettuato arresti accompagnati dalla grancassa mediatica. Come spesso accade, da fuori sarà difficile farsi un’idea dell’accaduto. Non resta, quindi, che ragionare sulle eventuali conseguenze degli annunci turchi. C’è chi ritiene che il Paese, addossando ai curdi le responsabilità dell’attentato, chiami in causa gli americani, tradizionali protettori dei curdi. Non è detto che questo sillogismo trovi conferma nel futuro prossimo.
È vero tuttavia che lo sguardo di Ankara si stia volgendo sempre più verso Est, traguardando il Caucaso. Il momento è geopoliticamente propizio, dato che russi e iraniani, cioè le altre potenze che insistono in quell’area, sono in una fase di difficoltà senza precedenti. La Russia è impantanata in Ucraina con un conflitto che fa registrare un numero esorbitante di vittime e continue batoste sul campo, a cui fanno da contraltare le sempre più evidenti guerre tra cordate moscovite. L’Iran fatica a sua volta a reprimere le proteste giovanili, che mettono in discussione lo status quo. Il ripiegamento dei due Stati crea un’opportunità che gli strateghi turchi vogliono cogliere, seducendo gli «Stan» e rafforzando i già forti rapporti con quelle realtà asiatiche. Per concentrarsi in questo sforzo, Ankara non può permettersi di tenere accesi troppi fuochi. Ecco perché nel Mediterraneo allargato ha optato per una strategia dei ramoscelli d’olivo. n
L’autore, Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar.
