Il ministro degli Esteri Di Maio ha fatto arrabbiare gli Emirati Arabi Uniti. Se si vuole lo sviluppo è la strategia errata.
L’Italia deve ricomporre la relazione con gli Emirati Arabi Uniti, con cui i rapporti si sono bruscamente irrigiditi prima della pausa estiva, per potersi agganciare al paradigma strategico indo-pacifico. Ecco perché. Per alcuni Paesi europei, l’aggancio all’Indo-Pacifico non riesce difficile. È, questo, il caso della Francia, che in quel quadrante ha territori d’Oltremare e popolazione con passaporto francese. Parigi ha senz’altro titolo per chiedere di essere ammessa al ristretto club dove si danno le carte: India, Giappone, Australia e Stati Uniti. Per altri Paesi, come la Germania, è prima di tutto la comunità industriale a cogliere la necessità di un «tuffo» nell’Indo-Pacifico. Da mesi, infatti, il gotha economico tedesco ha stabilito che Pechino è alle prese con forti pressioni interne e sta vivendo una fase di introversione. Il vertice industriale, lo ha capito e incoraggia la politica tedesca ad approfondire l’opzione indo-pacifica.
È un fatto, d’altra parte, che il legame sino-tedesco fosse ormai incrinato fin dal 2016, anno della clamorosa acquisizione del produttore tedesco di robot per l’industria, Kuka, da parte del colosso cinese degli elettrodomestici Midea. Ed è un fatto che il piano Cina 2025 sia sempre stato letto con enorme allarme dall’industria della Germania, sempre più consapevole dell’obiettivo cinese di soppiantare il Paese in un settore strategico. L’ultimo e ancora più ambizioso piano cinese – diventare entro il 2035 il leader globale negli standard per 5G, Internet of things e Intelligenza artificiale – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Anche l’opinione pubblica tedesca asseconda ormai questa virata. Lo dimostra in maniera vistosa una rilevazione di fine agosto dei sondaggisti di Forsa: il 58 per cento della popolazione chiede ormai una linea molto più dura contro la Cina, anche se ciò dovesse comportare danni all’economia interna. Un altro 17 per cento, più prudente, chiede maggiore durezza contro Pechino ma solo a patto di non danneggiare gli interessi economici di Berlino, mentre solo il 19 per cento è favorevole allo status quo.
Per altri Stati ancora, l’aggancio all’Indo-Pacifico richiede uno sforzo di elaborazione. L’Italia, allo stato attuale, non sembra avere ancora chiaro il da farsi su questo dossier. Sulla carta non saremmo svantaggiati, tanto più che in India e in Giappone abbiamo due tra i nostri diplomatici di maggiore esperienza, Enzo De Luca e Giorgio Starace, che nel corso della loro carriera hanno lavorato anche in Nord Africa e nel Golfo. Quello che manca è un piano. Richiami generici all’intensificazione del commercio con l’Indo-Pacifico valgono a poco. Un aiuto concreto, casomai, ci può venire dalla trama di rapporti sempre più fitta che lega il Golfo, Emirati in testa, e l’India. Lo ha spiegato molto bene Michael Tanchum nel suo suggestivo studio India’s Arab-Mediterranean corridor: a paradigm shift in strategic connectivity to Europe, che descrive l’enorme potenziale strategico del corridoio indo-arabo-mediterraneo. Al suo centro vi è la catena del valore manifatturiera nella produzione e lavorazione degli alimenti. Gli emiratini usano l’India come «orto fuori porta», finanziando la creazione di infrastrutture dedicate nel subcontinente indiano e mettendo in campo i formidabili terminalisti di DP World. Il progetto multimiliardario India-Middle East food corridor, guidato dalle partnership di investimento degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita con l’India, punta sulla trasformazione dei settori dell’agricoltura e vede un ruolo-chiave degli israeliani nel settore idrico. A ciò si aggiunge la catena integrata degli idrocarburi attraverso investimenti multimiliardari nelle produzioni petrolchimiche. Le tecnologie innovative, comprese quelle relative alla generazione, allo stoccaggio e all’uso dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, sono i settori più promettenti per la futura integrazione della catena del valore nel corridoio arabo-mediterraneo India-Europa. L’Italia ha le carte in regola per integrarsi sia nella catena alimentare che in quella petrolchimica.
Di particolare interesse, poi, è la logistica multimodale che innerva entrambe le catene, in cui il traffico marittimo tra Golfo e India è intervallato da lunghi tratti su rotaia che, attraversando l’intera penisola araba, arrivano in Israele e da lì nel Mediterraneo, con un netto risparmio di tempi rispetto al passaggio via Suez.
Dal punto di vista italiano si tratterebbe di un ritorno agli schemi che governarono i traffici delle spezie tra la Serenissima e l’Oriente fino al 1498, più precisamente, quando la scoperta della Carreira da India – la rotta per l’India del portoghese Vasco da Gama – rese di colpo obsoleti, superati fondaci veneziani, porti e angiporti e le carovane dall’Est del mondo.
Una ragione in più per rammendare i rapporti con gli Emirati Arabi Uniti, incrinati dopo la decisione italiana di interrompere forniture già autorizzate a Dubai, comprese quelle di pezzi di ricambio per la pattuglia acrobatica emiratina.
Una mossa micidiale: raffreddare i rapporti con il Golfo, oggi, significa rinunciare al corridoio indo-arabo-mediterraneo. Significa aggiogarsi alle Vie della seta e fare il gioco della Cina.
Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar