L’estate da gip gli mancava. Condanna o assolve per interesse politico, lasciando agli amici pm il compito di far tintinnare le manette e agli amici giudici quello di istruire i processi domani, dopodomani o mai. Poco importa, perché il processo vero, quello mediatico, nel frattempo Giuseppe Conte l’ha già cotto e mangiato a seconda delle convenienze. Beppe Sala a Milano? Colpevole, si dimetta. Matteo Ricci nelle Marche? Stia accorto ma vada avanti, con il maxi-casco di Valentino come elmetto. Eugenio Giani in Toscana? Fino a quando si accompagna a Matteo Renzi, alla larga. L’ex premier con pochette dispensa sentenze, ridisegna alleanze in vista delle regionali, setaccia il campo largo a caccia di mine, organizza summit sul destino della sinistra. Nell’agosto che porta alle impressioni (elettorali) di settembre è lui l’Ego della bilancia.
I primi ad essere preoccupati sono gli alleati del Pd, anche perché in vista del gran ballo d’autunno (si vota nelle Marche, in Toscana, Valle d’Aosta, Puglia, Calabria, Campania e Veneto) gli accordi contiani sono a geometria variabile. E se il Movimento 5 Stelle è schierato con l’indagato Ricci a Pesaro (anche se per Marco Travaglio «lo sostengono come la corda sostiene l’impiccato, appoggio condizionato e a tempo»), a Firenze il partito vede male la ricandidatura di Giani, mai appoggiato in passato.
A Napoli, Conte ha lanciato Roberto Fico per sostituire il vicerè borbonico Vincenzo De Luca e si aspetta obbedienza assoluta dai dem svegliatisi junior partner, mentre a Bari è pronto a sostenere il candidato del Nazareno, Antonio Decaro, non senza porre condizioni: «Serve un cambiamento radicale rispetto alla giunta di Michele Emiliano, un rinnovamento che vada al di là del semplice maquillage». Bilancino, convenienze.
E poi ci sono i sondaggi. Quello che disturba di più i piddini è l’ultimo di Nando Pagnoncelli: Pd al 21,1%, in calo dello 0,3% rispetto a giugno, mentre il M5S risale oltre il 14%. Una lenta erosione a sinistra, un trasferimento di voti tutto interno ai progressisti, con un ritorno di fiamma a favore dei grillini. Una spinta che galvanizza Conte, impegnato sotto il pelo dell’acqua a preparare un’altra, ben più ghiotta partita a lungo termine: quella per le politiche del 2027. Con il proposito di avvicinarsi sempre più alla post-liceale Elly Schlein e stringerla nell’abbraccio mortale per sorpassarla in corsa e tornare con il tavolino dove aveva lasciato: sulla soglia di Palazzo Chigi.
Così l’estate «nazarenica» è anche schizofrenica: si passa dal sogno di vincere 5-2 le regionali, all’incubo di finire dentro le trappole del gip Conte e trascorrere mesi nella palude. Il primo a lanciare l’allarme è il presidente del Copasir ed ex ministro Lorenzo Guerini, uno dei leader di Base Riformista: «Conte ha scritto una sceneggiatura, è tutta scena. È un copione scritto per contenere l’ostilità a un’alleanza col Pd di parte della sua base. L’importante è saperlo».
Se non fosse abbastanza chiara la diffidenza, basterebbe aggiungere il siluro lanciato dalla senatrice Simona Malpezzi in un’intervista al Foglio: «È una politica da tricoteuses, Conte fa i raggi X al Pd come se fossimo i suoi avversari e non i suoi alleati. Vuole solo ottenere vantaggi dalle inchieste». Se il meteo prevede temporali, a sinistra si apre l’ombrello più ampio, anzi l’ombrellone da spiaggia. Goffredo Bettini, l’ideologo del grande abbraccio Pd-M5S, colui che un giorno definì i grillini con una frase che neanche Beppe Grillo ai tempi del pianeta Gaia. «Avverto l’eco di Pier Paolo Pasolini in quei ragazzi di borgata assurti a simbolo della critica al consumismo della civiltà capitalistica». Per il kingmaker romano, Conte è una specie di messia, sempre profetico, sempre in buona fede. Quindi è fondamentale fidarsi. «Non ci sono baratti in corso. Piuttosto, mi pare importante l’affermazione di Conte che un avviso di garanzia non è una condanna. Ha superato il giustizialismo e con il suo comportamento sta vincendo la sfida, sale nei sondaggi».
Riassumendo il risiko ferragostano a beneficio dei lettori ci si accorge di entrare nella foresta amazzonica. Marche: contro il governatore uscente Francesco Acquaroli (Fdi), scende in campo l’eurodeputato ed ex sindaco di Pesaro, Ricci (Pd), commissariato da Conte, sostenuto da Gianni e Pinotto (Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni), sponsorizzato da Renzi ma non da Carlo Calenda, che lo boccia così: «È un trasformista, si è buttato dal renzismo alla sinistra. E al primo punto del programma ha la chiusura del termovalorizzatore di Corinaldo. Sciocchezze, ne servirebbero 11».
Campania: Conte ha lanciato Fico e il Pd è incline ad accettarlo. Con l’incognita De Luca, che ha già cominciato il fuoco di sbarramento contro il suo partito. «È pura ipocrisia quella del Pd sul terzo mandato, visto che Ricci è candidato per il quinto: due mandati da sindaco, uno da europarlamentare e adesso alla Regione per i prossimi dieci anni. La linea della doppiezza». Conte osserva i mal di pancia partenopei per decidere sull’alleanza nelle Marche. Però lui nega: «Nessun collegamento. Significherebbe che il M5s fa mercimonio e significherebbe che sono un buffone».
Toscana: Giani ci riprova supportato da Renzi e quindi inviso ai grillini che dovranno sciogliere la riserva. Per ora i pentastellati sono fermi alla frase: «Entrare in giunta sarebbe un sacrificio notevole». Qui si gioca la partita più ardua perché lo zoccolo duro del grillismo è formato da elettori delusi un decennio fa dal Pd, quindi refrattari a fare accordi per rientrare nella casa della prima moglie.
Puglia: il dem Decaro è il campione designato dal Nazareno, battezzato anche da Conte. Si temono sgambetti dal governatore uscente Emiliano (definito un cacicco dalla Schlein) e dal suo predecessore Nichi Vendola, che sta percorrendo il Tavoliere per presentare il libro Sacro Queer e spingere per spostare il baricentro della coalizione più a sinistra.
La Valle d’Aosta è insondabile per via del sistema elettorale e del condizionamento autonomista; in questa tornata la sinistra s’è inventata un immaginifico «fronte popolare di montagna».
Le variabili sono molteplici e nel quartier generale del Pd ne aleggia una in più: il logorio della Schlein medesima, che teme di non «veder arrivare» il prossimo siluro, quello diretto alla sua scrivania. La segretaria è tutt’altro che in sella e l’ambiguo rapporto con l’Europa dei disastri (Ursula von der Leyen sta in piedi con il supporto dei socialisti) contribuisce a indebolirne ancora di più il profilo.
Percepita come movimentista iperlaica, Elly non ha dalla sua l’area cattodem, gli ex Margherita; con lei è in atto un raffreddamento di quella fetta di Pd che si percepisce potenziale forza di governo. Questo significa che Dario Franceschini, all’inizio suo grande sponsor, si sta riposizionando. Pessima notizia perché «Giudario» si muove sempre a ragion veduta. Non a caso il competitor della segretaria, l’eurodeputato Stefano Bonaccini, sarebbe in vantaggio di sei punti nel gradimento interno.
Se il gran puzzle del centrosinistra è un groviera, quello del centrodestra fatica a trovare una forma armonica e condivisa. Soprattutto in Veneto, roccaforte del leghismo moderato, postdemocristiano, rappresentato perfettamente da Luca Zaia, cavallo di razza a fine corsa. Il niet al terzo mandato, voluto da Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Maurizio Lupi, ha aperto una voragine e non è detto che l’elettorato leghista si trasferisca sotto la tenda di Fratelli d’Italia, partito percepito nella Serenissima come romanocentrico, un Pd di destra.
E allora? I meloniani vorrebbero lanciare i senatori Raffaele Speranzon e Luca De Carlo, i salviniani Alberto Stefani, attuale numero due del partito. Sullo sfondo, l’industriale Matteo Zoppas potrebbe mettere d’accordo tutti. Zaia è incerto se presentarsi con la Lega o lanciare una lista civica con in tasca il 44% dei voti, potenzialmente una mina per la coalizione. Una scelta bocciata anche dal fedelissimo vice doge Roberto Marcato: «Drenerebbe consenso a tutti e questo è un lusso che non ci possiamo permettere».
In Campania il centrodestra vorrebbe schierare il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per tentare la spallata approfittando delle gastriti di De Luca, ma lui è fermo alla frase: «Fuori dal Viminale ambisco solo all’incarico di presidente dell’Avellino». I sondaggi danno competitivo anche il viceministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, mentre cresce all’interno dei partiti la tentazione di affidare la corsa a un civico, Matteo Lorito o l’avvocato Giosy Romano.
Nelle Marche si ripresenta Acquaroli mentre la Calabria, dopo il colpo di scena delle dimissioni in seguito all’avviso di garanzia per corruzione, riparte da Roberto Occhiuto. Qui il Movimento 5 Stelle è il primo partito di sinistra, ha incassato in silenzio la candidatura di Mimmo Lucano da parte di Alleanza Verdi Sinistra e ha già fatto trapelare i nomi delle sfidanti: Vittoria Baldino, Anna Laura Orrico o Elisa Scutellà.
Ma Conte non è convinto e vorrebbe lanciare un pezzo da novanta: l’eurodeputato Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps. Lui sta a Bruxelles con uno stipendio da 10.377 euro al mese, non si muoverà mai. Ma Conte ci prova, anche solo per rovinare il Ferragosto al Pd.
Sul centrodestra resta il conflitto a bassa intensità tra i due vicepremier, a caccia di visibilità e spazi di manovra. Da un lato il leader azzurro Tajani ha da tempo intrapreso la battaglia per lo ius scholae, dall’altra il segretario leghista Salvini che, incassato il via libera sul maxi ponte sullo Stretto, lo userà come trampolino mediatico. In mezzo, il premier, con il compito di tenere la barra dritta.
