In mancanza di una visione concreta e profonda sul futuro del Paese, Il Pd imbarca nelle sue file vecchie glorie, nuovi (improbabili) alleati, transfughi pentastellati, rockstar della società civile. Sintomo di un problema cronico di poltrone in un partito che ha sempre governato senza mai essere eletto…
Qui manca che Fratoianni chieda di nazionalizzare Dazn». Al Nazareno stanno all’erta: l’Italia non deve rimanere con la rotella del buffering al posto del pallone, ne va dell’onore del centrosinistra. «Ecco un tema da unità nazionale» spiega un colonnello del Pd che ha voglia di scherzare sul vuoto pneumatico dei programmi. Altro che agenda Draghi, altro che allarme fascismo, altro che Ius Scholae. È fondamentale non lasciare alla destra (anzi «alle destre», fa più impresentabile) le partite che contano: quelle della Juventus e della Roma. E allora la parola d‘ordine di Enrico Letta è: marcatura stretta. Come per la fiamma di Giorgia Meloni, per l’indignazione permanente di Lilliana Segre, per i barbecue che aumentano il Co2.
Ballon d’essai agostani, risse da talk show. In mancanza di una visione concreta e profonda del Paese (ma quella non ce l’ha nessuno, minimo da un decennio), ogni argomento volatile è preda della coalizione rossa: Pd, +Europa, Sinistra italiana, Verdi Europei, Di Maio e Tabacci. I commentatori in pedalò la definiscono «ammucchiata» e i transfughi calendiani «akkozzaglia» enfatizzando le kappa per evocare i kalashnikov bolscevichi. Effettivamente la cosa rossa si è spostata a sinistra, ora alzano la voce i Provenzano, i Boccia, gli Orlando, e Letta con l’elmetto somiglia a un coniglio mannaro, epiteto che Giampaolo Pansa appiccicò alla schiena di Arnaldo Forlani.
Il segretario sta in trincea per rabbonire il partito in subbuglio, se non in rivolta, per via delle candidature. «Chiamiamole pure liste della discordia» ha sussurrato l’ex ministro Lorenzo Guerini, leader di Base riformista, una delle sette correnti che fanno sbattere le porte del Nazareno, anzi la più penalizzata. Il Ferragosto delle streghe e delle bocciature ha lasciato strascichi: sono scontenti tutti tranne Andrea Orlando e Dario Franceschini; l’investitura della moglie Michela Di Biase aiuta. A sinistra le quote rosa si giocano in famiglia, ne sa qualcosa la signora Elisabetta Piccolotti in Fratoianni, in bilico fino all’ultimo per un posto al sole.
«Avrei voluto ricandidare tutti gli uscenti ma non era possibile», ha detto Letta, stile monsignore, facendo arrabbiare mezzo partito (14 mila euro netti fanno gola a tutti) e i sindaci inascoltati, che si vedono paracadutare alleati alieni o rockstar della società civile come Carlo Cottarelli e Andrea Crisanti. E adesso minacciano: «Non hanno mai distribuito un volantino. Noi a questi la campagna elettorale non la facciamo, visto come ci hanno trattati. Ci vogliono per fare le belle figurine e poi non ci danno neppure un nome dei nostri? Se li vadano a cercare da soli, i voti». Tuoni e fulmini non solo passeggeri. I territori pagano due decisioni strategicamente rovinose del Pd: aver votato il taglio di un terzo dei seggi parlamentari (da 945 a 600) nella stagione dell’innamoramento per le follie grilline e aver mantenuto la legge elettorale voluta dalla sinistra, il rosatellum, che favorisce il centrodestra.
Più che dai tagli, la deriva rossa è determinata dall’appiattimento del segretario sulle posizioni di Roberto Speranza, l’ex ministro da incubo della Salute, quello che scrisse di approfittare della pandemia «per costruire una nuova egemonia culturale». Letta lo ha inglobato nel partito, gli ha regalato un collegio sicuro in Campania e ha detto con imprudenza: «Ha fatto scelte a favore di libertà e sicurezza, è il nostro punto di riferimento». Silenzio su record di morti, discriminazioni e protocolli sotto accusa. Con Crisanti costituisce l’ala sanitaria della sinistra, più che una coalizione è un hub. Se vincono, al secondo colpo di tosse è lockdown.
Si nota una certa fibrillazione anche nei santuari rossi come Emilia Romagna, Toscana, Umbria; di estranei il Pd ne ha piazzati parecchi. Ci sono i due transfughi pentastellati Davide Crippa e Federico D’Incà, per l’appunto Speranza e Nicola Fratoianni, quest’ultimo imposto a Pisa al posto di un monumento, il costituzionalista Stefano Ceccanti. Collegio blindato, sennò chi lo elegge? A far le spese dei clientes esterni sono nomi di peso come Emanuele Fiano e Monica Cirinnà, costretta a fare campagna elettorale in periferia anche per l’imbarazzante vicenda del cane con dote. Il suo allontanamento dal cerchio magico non sta a indicare che le battaglie etiche siano tramontate (ha protestato pure l’Arcigay), ma la frase «E daje co ‘sti diritti civili» comincia a risuonare un po’ ovunque nel mondo dem.
Silurato speciale è Luca Lotti, ex braccio destro di Matteo Renzi. Più che uno sgambetto a Base riformista pare una vendetta privata, un invito ad andarsene con la scusa delle inchieste giudiziarie. Lui non abbocca: «La scelta è politica, nessuno si nasconda dietro scuse vigliacche, rimango nel Pd». A minare le scrivanie, a indurre alla fronda l’ala destra frustrata dal leader. Finisce che a presidiare la destra trovi Emma Bonino, l’alleato meno rosso, rimasta nella casa madre per puro calcolo di posti al sole dopo l’uscita di Demolition man Carlo Calenda.
Il problema delle poltrone è centrale in un partito che punta sempre al potere e che ha governato in 10 degli ultimi 11 anni pur non avendo mai vinto le elezioni. Esempio illuminante è quello di Pierferdinando Casini, imposto a Bologna dove gli apparati non lo vogliono. È così dal 1983, e Letta (come Renzi) ha perpetuato il diktat motivandolo come un risarcimento postumo: «Contro il presidenzialismo della destra serve un peso massimo che durante l’elezione del Quirinale si è comportato con senso dello Stato».
Il segretario è pronto per la seconda parte della battaglia, quella di settembre: si candida a Vicenza, va a incontrare le partite Iva che il suo partito osteggia dai tempi di Romano Prodi. E ci va con un bus elettrico da 12 posti, con le tappe scandite dalle colonnine di ricarica. Il viaggio nell’Italia della transizione energetica potrebbe rivelarsi un incubo, in Direzione piddina hanno tentato di dissuaderlo: «Sarai costretto a fermarti, magari a tornare indietro, ripensaci». Letta è irremovibile: «In ogni altro Paese europeo sarebbe possibile. Tutto questo ha senso se se ne parla, se diventa un messaggio».
Qui esce il teorico di Sciences Po ma anche lo scaramantico: la doppia campagna di Prodi (nel 1996 e nel 2006), caratterizzata dal viaggio in pullman granturismo, fu vincente. Quella di Walter Veltroni nel 2008 disastrosa, ma nelle urne il Pd prese il 33 per cento. Basterebbero10 dieci punti in meno per perdere bene e contare ancora molto.
Gli strateghi del partito sono già proiettati al 26 settembre, the day after, per la beffa finale a un centrodestra eventualmente vincitore di misura: Renzi e Calenda tornerebbero nella casa rossa, Conte pare pronto ad aderire a un «governo istituzionale per fermare i sovranisti» voluto da Sergio Mattarella (una formula accorata il Quirinale la trova sempre). In quel caso l’ammucchiata diventerebbe indispensabile per costruire una maggioranza Ursula e Letta potrebbe sognare di nuovo palazzo Chigi. Calenda ha già prefigurato lo scenario: «Chiunque vinca non durerà più di sei mesi. Poi servirà una coalizione dei partiti Responsabili».
Se invece il bus elettrico va in panne e il corpaccione rosso si sgonfia, sarà inevitabile il congresso, al quale il segretario parteciperà con in tasca un biglietto per Parigi, sola andata. Per il Nazareno è pronto Stefano Bonaccini, il governatore con i Ray Ban, il simbolo del «sinistrismo democratico con pretesa di efficienza», l’uomo destinato a far tornare quel gran pezzo dell’Emilia al comando. Con motori a scoppio (Ferrari oblige) e sotto una grande luna color grana Padano.