Le elezioni di ottobre saranno il vero banco di prova dell’ormai logora alleanza tra Enrico Letta e Giuseppe Conte. Che, conscio del disastro in arrivo, ha rinunciato persino a candidare i suoi uomini in comuni importanti. E le Politiche sono dietro l’angolo…
Spaesato come l’omonimo Peppino in piazza Duomo, a Milano sulle tracce della malafemmina, anche Giuseppe Conte vaga per l’Italia, nell’illusoria speranza di evitare il peggio. Le Amministrative di inizio ottobre incombono. E l’ex premier, ormai gran capo dei Cinque stelle, fiuta l’aria pestifera. Catastrofe annunciata. Sconfitta talmente certa da averlo convinto a rinunciare alla rischiosa corsa per un posto da onorevole, nel collegio di Primavalle, ruspante borgata romana. Meglio evitare. Proprio mentre Enrico Letta, altro leader in cerca d’autore, si candida a Siena per la seconda cadreghina in palio alle suppletive. Senza simbolo di partito, però: gli scandali bancari del Pd, da quelle parti, restano indimenticabili.
«Se perdo, mi dimetto» assicura comunque l’arrembante Enrichetto. «Se le elezioni andranno male, non è problema» minimizza invece il fiducioso Giuseppi. Ricapitolando: già claudicanti, rischiano entrambi l’osso del collo. Si sceglie il sindaco di 1.162 comuni, tra cui le più importanti città d’Italia. Tutte guidate dal centrosinistra: avamposti pentastellati come Roma e Torino, feudi democratici quali Milano e Bologna, esperimenti pseudogrillini tipo Napoli. Conte e Letta, insomma, hanno solo da perdere. Al centrodestra, viceversa, basta piantare anche solo una bandierina: magari nel capoluogo piemontese, dove l’imprenditore Paolo Damilano è avanti nei sondaggi.
Comunque vada, la tornata non potrà essere derubricata a voto locale. Il premier, Mario Draghi, sta fiaccando gli ansimanti partiti e le usurate liturgie. Sfida dunque decisiva, per i leader. Urge battere un colpo. Anzi due. Il primo per l’elezione del presidente della Repubblica, a gennaio 2022. E poi in vista delle Politiche, previste la primavera dell’anno successivo, salvo clamorosi colpi di scena. A quel punto, tra governissimo e taglio dei seggi, per molti sarà questione di vita o di morte.
Le sorti più tribolate sono quelle del Movimento. La malaccorta campagna milanese è già leggenda. A partire dall’esordio. Conte, in una letterina al Corriere della sera, denuncia l’intollerabile povertà in cui versano 200 mila bambini: e invece, tra pasciuti e indigenti, risiedono nella metropoli appena 160 mila fanciullini. Poi il giurista di Volturara Appula indica la prescelta, scovata tra gli adoranti amministratori del sempre devoto Fatto quotidiano: ecco quindi, nome esotico e piglio riformatore, la manager Layla Pavone. Scelta precipitosa. Basta leggere i minacciosi tweet della candidata contro il governo giallorosso guidato dal suo scopritore. Non che altrove vada meglio, sia chiaro. Il Movimento ha perfino rinunciato a presentarsi in capoluoghi come Benevento o Caserta, dove alle Politiche del 2018 aveva superato il 50 per cento.
Il battesimo alle urne di Giuseppi sembra già un’estrema unzione. Non gli resta che sperare nelle impalpabili speranze di vittoria della pentastellata meno ortodossa e governista in circolazione: Virginia Raggi. Per farsi un’idea: la sua ricandidatura a Roma è stata scansata fino a quando, lo scorso dicembre, la sindaca non viene assolta dall’accusa di falso. Sentenza seguita da usuale spargimento di fiele: «Credo che debbano riflettere in tanti, anche e soprattutto all’interno dei Cinque stelle» svelena lei. «Ora è troppo facile voler provare a salire sul carro del vincitore, con parole di circostanza, dopo anni di silenzio». Riferimento all’arcinemica, Roberta Lombardi. Ma pure all’allora reggente, Vito Crimi. E a Luigino Di Maio, che poco prima aveva verbalizzato: «Non mi fossilizzo sulla Raggi». Adesso invece sono tutti attaccati come mitili alla reietta Virginia, commiserata per anni. Non servirà, giurano i sondaggisti. Il Campidoglio sembra una sfida a due: tra centrodestra e Pd.
Ecco, appunto, i democratici. Anche nel loro caso, l’avvento del nuovo segretario doveva essere messianico. Deposto Nicola Zingaretti e in omaggio al governo del «Migliore», ovverosia Draghi, lo scorso marzo viene richiamato dall’esilio accademico parigino il meglio in circolazione. E mentre la pandemia continua a terrorizzare, Letta sgancia subito le sue priorità: patrimoniale, ius soli e legge Zan. Da moderato a massimalista. Da artefice a comprimario. Da Letta a SottiLetta. I più ribaldi già infieriscono. Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, dileggia l’identitaria lotta all’omotransfobia: «Andate al diavolo!». Il collega pugliese, Michele Emiliano, elogia Matteo Salvini, il più odiato in circolazione: «Ha una sua onestà intellettuale». Mentre l’ex presidente della Calabria, Mario Oliverio, tenta di sabotare Amalia Bruni, candidata lettiana alla guida dell’unica regione alle urne (box a destra). Ma si vota anche per i due seggi delle suppletive, rese celebri dall’avvento di Enrichetto a Siena, con tanto di anonimo simbolo rosso e bianco. Ovvio: mica si può andare a testa alta nella patria dell’agonizzante Monte dei Paschi. Certo, il segretario nobilita la scelta: gesto disinteressato e inclusivo il suo, altroché. Ma soprattutto salvifico. Pena dimissioni, servono voti. Perfino quelli degli scassatissimi grillini.
La città simbolo di scandali bancari legati ai dem è una delle poche in cui vige, fin dal primo turno, il vagheggiato patto tra Cinque stelle e Pd. Siglato anche a Napoli, dove i due partiti appoggiano l’ex ministro dell’Università, Gaetano Manfredi. O a Bologna: il designato è Matteo Lepore, assessore comunale uscente e vincitore di logore primarie. In compenso, proprio in terra felsinea, Enrichetto schiera la novità più dirompente: l’immarcabile Mattia Santori. L’ex leader delle Sardine è candidato in consiglio comunale per il Pd. L’intento, informa, è epocale: sorvegliare la purezza ideologica dei nipotini di Berlinguer. Ma anche, andando sul concreto, adoperarsi per realizzare quello stadio del frisbee che la città attende da sempre. «Opterei per una pedata nelle chiappe» suggerisce così Carlo Calenda, terzo aspirante al Campidoglio del centro sinistra.
Dal canto suo, il leader di Azione sperava nell’appoggio dei democratici. Hanno invece optato per l’ex ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Nome di peso. «Tonnellate di retorica», accusa però il rivale deluso. Tutti divisi alla meta, come al solito. Insomma: dovevano essere le prove generali, si sono ritrasformate negli eterni soliloqui. E le distanze, nei prossimi mesi, potrebbero perfino aumentare. Dalla corsa al Quirinale alle bandiere da sventolare in faccia ai perplessi elettori. Il Pd issa i suoi vessilli: immigrati, omofobia, nuove tasse. I Cinque stelle rilanciano: reddito di cittadinanza, sussidi, assistenzialismo. E i renziani di Italia Viva nel mezzo: pronti ad aizzare, uno sgarro dopo l’altro.
Il centrodestra, invece, alle Amministrative d’autunno si presenta unito. Nonostante la guerriglia per la futura guida della coalizione tra Matteo Salvini, convinto governista, e Giorgia Meloni, fiera oppositrice. Enrichetto e Giuseppi, come un sol uomo, arringano: «Bisogna battere le destre». Nell’attesa, si sono accordati per rieleggere Sergio Mattarella al Colle e lasciare Draghi a Palazzo Chigi. Ovvio: le urne anticipate sancirebbero, per i due cobelligeranti, il forzoso rientro all’insegnamento universitario. Nonché un governo avverso: spauracchio che li costringe all’apparentamento farlocco.
Tornata tribolata, dunque. Per Salvini e Meloni l’occasione delle Amministrative d’autunno sembrava unica. Nelle grandi città, però, i prescelti non sembrano irresistibili. A Milano lo sfidante dell’appannato Sala è uno stimato pediatra, Luca Bernardo, già candidato con Letizia Moratti nel 2006. L’hanno scorticato con un insidioso retroscena: gira armato in ospedale. C’è cascato. Si farà. Ma i sondaggi, per adesso, non lo premiano. Così, i leader lo hanno cinto di aspiranti acchiappavoti. A partire dal giornalista Vittorio Feltri, che corre per Fratelli d’Italia.
Ancora meno convincente sembra un’altra creatura meloniana schierata a Roma: Enrico Michetti, avvocato amministrativista, tribuno radiofonico, appassionato di storia antica. Che però è destinato a beneficiare della litigiosità dei contendenti. A Napoli, invece, si converge su Catello Maresca, illustre rappresentante della categoria più detestata del momento: i magistrati. Per i tre designati, vale identico ragionamento: un’eventuale vittoria sarebbe soprattutto merito della coalizione. Con il povero Giuseppi laggiù ad arrancare, sempre più frastornato. Pronto a raccogliere, come Peppino, il confuso invito di Enrichetto, nei panni di Totò: «Adesso che siamo a Milano, finalmente, vogliamo andare a vedere questo famoso Colosseo?».