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Ecco come spendere i soldi del Recovery Fund (senza fare assistenzialismo)

Ecco come spendere i soldi del Recovery Fund (senza fare assistenzialismo)

Ora che l’Italia riceverà dall’Europa circa 200 miliardi tra sovvenzioni e prestiti (numeri per la verità tutti da verificare e soggetti alle verifiche della Commissione), che cosa dovrebbe fare il Paese di tutti questi soldi?


Prima di tutto bisognerebbe aver chiaro qual è l’obiettivo, che dovrebbe essere focalizzato sull’ammodernamento del sistema sanitario e sulla creazione delle condizioni per rendere la nostra economia più efficiente e capace di sviluppare una crescita più veloce di quella, anemica, messa a segno negli ultimi anni. Un Pil che cresce a tassi più elevati permette inoltre di ridurre il peso del debito pubblico. In concreto, dunque, in quale direzione occorre andare?

Intanto bisognerebbe riprendere in mano il piano preparato dagli esperti guidati da Vittorio Colao e rispolverare alcuni loro suggerimenti. Come questi:

– Indentificare una serie di infrastrutture (di telecomunicazioni, energia, trasporti, salvaguardia dell’ambiente) alla quale dare priorità e affidandone provvisoriamente la regia a un’unità legata alla presidenza del Consiglio con poteri di coordinamento con i vari ministeri coinvolti.

– Completare la rete unica di fibra ottica e collegare tutte le scuole.

– Sviluppare la rete 5G.

– Avviare un piano mobilità per svecchiare il parco autobus delle città italiane, sostenere il ricambio di camion e i furgoni privati e potenziare la rete di colonnine per la ricarica delle auto elettriche.

– Migliorare l’offerta turistica e culturale (molti nostri musei fanno pietà).

– Semplificare le procedure degli appalti.

– Sburocratizzare la pubblica amministrazione ampliando l’uso delle autocertificazioni.

– Potenziare le misure previste dal provvedimento Industria 4.0 che incentivano gli investimenti in nuove tecnologie.

– Incentivare l’utilizzo dei pagamenti elettronici.

Basterebbero questi interventi, solo una parte di quelli indicati da Colao, per far fare all’Italia un passo in avanti.

Nelle 121 pagine del Piano Colao ci sono provvedimenti che, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, costerebbero 170 miliardi di euro in cinque anni. Una cifra coerente con gli oltre 200 miliardi di aiuti e prestiti europei. Ma il governo e il Parlamento dovrebbero avere anche il coraggio di intervenire sulla giustizia, promuovendo una riforma che acceleri i tempi dei processi civili, dove l’Italia è in coda nelle classifiche internazionali. Dovrebbero inoltre convincere i sindacati della scuola a introdurre un sistema premiante per i docenti più bravi e a rimettere al centro della scuola gli studenti e non gli insegnanti.

Occorre poi proseguire sulla strada del definitivo superamento delle regole del Patto di stabilità per consentire agli enti locali di spendere e rimettere in moto la macchina degli investimenti pubblici sul territorio. Come riconoscono Claudia Ferretti, Giuseppe Gori e Patrizia Lattarulo in un articolo pubblicato su Lavoce.info, già un anno fa “il governo stava procedendo verso l’abbandono dei vincoli di natura fiscale, da un lato, e verso la semplificazione delle procedure in ambito di lavori pubblici, dall’altro. Nel 2019, in particolare, si intravedevano i segnali di una progressiva ripresa degli investimenti che riguardava più diffusamente le diverse aree del paese”. Del resto, negli ultimi anni “la voce della spesa pubblica più penalizzata è stata quella in conto capitale, perché meno rigida e meno visibile dai cittadini rispetto all’offerta di servizi. Questo ha portato a una riduzione delle risorse destinate all’ammodernamento e alla manutenzione del capitale pubblico del 40 per cento, e cioè di oltre 24 miliardi tra il 2010 e il 2018, e ha rappresentato un fattore di freno alla ripresa del Paese”.

Il mondo politico italiano dovrebbe anche andare a rivedere i piani di riforme adottate da alcuni Paesi europei negli anni passati, guidati da governi sia di sinistra, sia di destra: come quello varato ormai 17 anni fa da Gerhard Schroeder per trasformare la Germania in una potenzia economica grazie a una serie di misure rivoluzionarie (taglio del generoso periodo di sussidio di disoccupazione, licenziamenti più facili, quasi obbligatoria l’accettazione di un lavoro per i disoccupati, minore peso fiscale sul lavoro, più fluido il passaggio dalla scuola all’occupazione sburocratizzando l’apprendistato, regole molto più stringenti per la copertura sanitaria). Oppure studiare quanto fatto da Irlanda, Spagna e Portogallo, che vantano tassi di crescita ben più alti dei nostri: i tre Paesi hanno varato riforma strutturali in particolare del mercato del lavoro.

Come sottolinea una ricerca del Centro studi di Confindustria, in Spagna la riforma del mercato del lavoro è stata introdotta circa tre anni prima che in Italia (2012 invece che 2015) e, oltre a intervenire come ha fatto il “Jobs Act” su flessibilità in uscita e dualismo fra lavoratori con contratti di durata diversa, ha introdotto misure che hanno spostato la contrattazione collettiva dal livello settoriale e regionale a quello di impresa. In questo modo è stata favorita la flessibilità interna delle aziende, in termini sia di orari che di mansioni. Risultato: aumento dell’occupazione.

Uno studio realizzato da The European House-Ambrosetti le dedicato al caso-Portogallo ricorda invece che le riforme realizzate negli ultimi vent’anni in diversi campi (istruzione, competenze, distribuzione degli investimenti, consolidamento del sistema bancario, miglioramento dell’ambiente economico…) hanno progressivamente migliorato i fondamentali economici del Paese e gli hanno consentito di crescere più velocemente.Insomma, il menu delle cose da fare non è difficile da scrivere.Il problema è avere una classe politica determinata a voler cambiare davvero le cose, a costo dell’impopolarità (come quella subita da Schroeder): capace di scontrarsi con la magistratura e con i sindacati (e con i 400 sindaci che bloccano le antenne 5G), pronta a rinunciare alle promesse assistenzialistiche per investire sul futuro.

Per ora questa maggioranza di governo si è distinta più per l’assistenzialismo che per la visione di lungo periodo. E il rischio che corriamo è di spendere male i soldi che riceveremo, mentre Paesi più seri del nostro faranno di meglio allargando così il gap che ci divide. Ci vorrebbero una Thatcher o uno Schroeder: ma ne abbiamo uno così in Parlamento?

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