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Draghi sfida la storia con la riforma fiscale (alla danese)

Draghi sfida la storia con la riforma fiscale (alla danese)

“Spesse volte ho la sensazione che una esenzione, in questo nostro beato paese, … non si rifiuti a nessuno”. Così Ezio Vanoni parlò al Parlamento italiano nel 1949. E Cosciani, l’anno dopo, definiva la questione come la “vera piaga del nostro sistema”. Se si pensa che il problema delle varie agevolazioni fiscali, l’evasione, l’elusione e l’avere un sistema tributario troppo complicato siano questioni degli ultimi anni, ci si sbaglia di grosso.


Già nel secolo scorso queste distorsioni erano all’ordine del giorno, retaggio del secondo dopoguerra che aveva visto un’ulteriore appesantimento del sistema fiscale italiano. I primi studi per cercare di mettere un po’ d’ordine nella babele fiscal di allora iniziarono del 1946 con il lavoro della commissione finanze dell’Assemblea costituente, ma si svolsero anche nella commissione di studio istituita da Pella nel 1947. Da queste ne derivarono numerosi saggi firma di Cosciani, Scoca, Visentini, d’Albergo e Giannini (nomi, alcuni che faranno la storia tributaria). Un ruolo fondamentale in questo periodo storico fu però svolto da Vanoni che riuscì ad indirizzare l’operato del ministro di allora sulla strada di una revisione del sistema tributario italiano. Visentini riconduceva la disorganizzazione amministrativa alla cattiva legislazione, alle molte imposte arbitrarie di difficilissimo accertamento e di scarso rendimento, all’accavallarsi continuo di nuove leggi e di nuovi tributi. Cosciani aveva inoltre evidenziato come l’assenza di limiti da parte del legislatore aveva portato ad una abbondanza di norme, la maggior parte emanate in modo frettoloso e non sufficientemente ponderata. Ne derivava “una confusione legislativa sorprendente (tale) da ridurre il numero di persone in grado di conoscere il sistema tributario nel suo complesso, a pochi specialisti”.

E dunque la prima vera e propria riforma fiscale del dopo guerra aveva come obiettivo quello di: ridurre il numero dei tributi, fornire una regolamentazione unitaria di aspetti procedurali comuni a più prelievi, formulare dei testi unici, in particolare per l’imposizione diretta, e predisporre di vere e proprie preleggi fiscali ottenute estraendo dal diritto fiscale i principi generali del diritto tributario. Ma le novità non finirono qua perché con la nascita della repubblica si accentuò anche il ruolo del contribuente, ma in direzione diversa rispetto alla versione autoritaria o corporativa del fascismo. E infatti Vanoni si incaricò anche di ridisegnare il ruolo di questi nel nuovo contesto italiano. La stessa Costituzione nel 1948 collegò il dovere di contribuire alle spese pubbliche “in ragione della capacità contributiva” e secondo “criteri di progressività”. E in questo contesto che si deve leggere l’idea di Vanoni, secondo il quale pagare le tasse non doveva essere visto come un problema di leggi o di impiegati, di aliquote o di sanzioni, di patriottismo o di senso civico.

Nella sua concezione questo era un problema morale e di coscienza: “nel nostro Paese si ha spesse volte la sensazione che l’evasione tributaria sia diventata un metodo di vita, un modo di agire contro il quale l’opinione pubblica non reagisce e che il singolo quasi considera una forma legittima di difesa contro un’imposizione ch’egli ritiene lesiva della sua sfera d’azione individuale … l’evasione tributaria assume le caratteristiche di una vera e sostanziale anarchia, di una negazione delle esigenze prime della convivenza sociale ed è appunto per questo che pare insopprimibile l’esigenza di arrivare ad un sistema nel quale non vi siano giustificazioni né morali, né tecniche per l’evasione e che porti alla più aperta condanna, morale prima che giuridica, per l’evasore stesso”.

Ma dunque, come disegnò la sua riforma Vanoni? Questa non ripensò totalmente il sistema tributario ma opto per un approccio graduale, visto che il suo predecessore tentò una revisione totalitaria, usando un’approssimazione giuridica, che fece più male che bene. Le modifiche amministrative di Vanoni furono l’obbligo della dichiarazione unica annuale dei redditi, sancito, una volta per tutte, con la legge del 1951. Questa aveva l’obiettivo di diventare per il cittadino un documento in cui riportare il reddito vero, e per l’amministrazione assumere la dichiarazione come punto di partenza. Significava dunque abbandonare quel sistema di accertamento che suddivideva rigidamente i contribuenti in base alle modalità di determinazione del reddito (analitico, analitico-induttivo e sintetico) e per ogni gruppo applicare meccanicamente determinati criteri di stima dell’imponibile. L’obbligo dichiarativo ebbe effetti anche sul lato organizzativo della macchia amministrativa. Si tentò dunque di meccanizzare l’apparato burocratico- fiscale con i nuovi centri meccanografici, facendo fare corsi di formazione ai funzionari e così via. La complessità del sistema non trovò una vera e propria soluzione. Si diede però molto spazio al rinnovamento di alcuni testi fiscali, ma il lascito più importante fu quello sulle imposte dirette (Tuid). Fondamentale perché portò con sé la ritenuta d’acconto sui redditi dei lavoratori autonomi. Ma la riforma Vanoni diede anche il via ad un’imposta sulla società nel 1953. I motivi dell’introduzione? Da una parte colpire i soggetti passivi dotati di capacità contributiva e dall’altra garantire una certa equità con le persone fisiche obbligate alla dichiarazione dei redditi con le relative tasse.

La riforma del 1951 vede delle misure cardine per il nostro sistema fiscale attuale, ma dalla seconda metà degli anni ’50 venne meno il cuore della politica di Vanoni. Da una parte un modo di lavorare degli uffici più efficiente e meno burocratico, e dall’altra un diverso approccio dell’amministrazione nei confronti dei contribuenti per incentivarne la fedeltà fiscale.

Come mai si verificò questa decadenza nella riforma? Il motivo principale, secondo le ricostruzioni storiche fatte da Banca d’Italia, fu proprio la mancata riforma dell’amministrazione. Negli uffici cambiò poco o nulla (organizzazione, strumentazione, metodo di lavoro). Ma soprattutto l’aspetto principale, che Vanoni voleva scardinare, la diffidenza verso il contribuente, continuò ad essere un capo saldo nell’operato dell’Amministrazione fiscale. Il contenzioso rimase così la norma e gli importi finali continuarono a scaturire dai mercanteggiamenti in sede di concordato. Rimase inoltre anche il problema delle agevolazioni, anzi, queste aumentarono di numero. La complessità del sistema tributario rimase. E i mali diagnosticati restarono quasi tutti intatti. A questi aspetti si aggiunse anche il fenomeno dell’elusione. Le società iniziarono a strutturarsi in modo sempre più complesso per aggirare il fisco. Un modo fu quello di iniziarsi a collocare in paesi a bassa fiscalità come il principato di Monaco o il Liechtenstein. Tutti questi problemi furo oggetto della commissione Cosciani (1963-1966) che aveva all’interno anche Visentini. I lavori coinvolsero le diverse parti sociali, e portarono ad una stesura dei documenti inziali nel 1964. Visentini e Cosciani avevano però idee fiscali quasi diametralmente opposte, che sfociarono nelle dimissioni nel 1966 da parte del secondo a favore del primo. La rottura fu la conseguenza di un metodo di lavoro e di scelte concrete messe nero su bianco che Cosciani non condivideva. Visentini, da esperto uomo politico, era dunque riuscito negli anni a far prevalere la sua idea di fisco rispetto a quella del collega. E le parti sociali erano state protagoniste fondamentali di questa trama

La riforma si sarebbe dovuta basare su 6 punti:

  • Schema Irpef
  • Irpeg
  • Iva (anche per la distribuzione all’ingrosso)
  • Imposta patrimoniale per i comuni
  • Imposta sul consumo sempre per i comuni
  • Imposta personale dei redditi derivanti da attività finanziarie

In fase di messa in pratica dello studio (con i decreti del 1973 e del 1974) della commissione, scomparvero però gli ultimi 3 punti. La riforma Visentini riprende in modo organico il lavoro fatto da Vanoni, cercando di migliorarlo negli aspetti lacunosi. E dunque ne emergono lati che ancora oggi caratterizzano il nostro sistema fiscale. L’introduzione dell’imposta unica sul reddito complessivo di natura personale (Irpef) che vede l’imposizione fiscale applicata in modo progressivo è un prodotto della Visentini. Altra tassa che oggi si conosce molto bene è l’Iva. Questa andò a sostituire l’Ige. E infine la riforma Visentini disegna un sistema molto accentrato dei tributi, che porta con sé un finanziamento degli enti decentrati. Quello su cui la Visentini non opera in modo netto è la riforma dell’amministrazione finanziaria, e una lotta seria all’evasione ed elusione fiscale. Aspetti che non furono risolti neanche negli anni a venire e che rappresentano ancora oggi un problema tutto italiano.

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