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«Le concessioni dell’Avana placano gli animi dei dimostranti cubani»

«Le concessioni dell’Avana placano gli animi dei dimostranti cubani»

La professoressa della Bocconi Antonella Mori, responsabile del Programma America latina all’Ispi, racconta come Cuba si trovi stretta fra crisi economica post-pandemia e boom dei social media. E spiega perché le aperture del presidente Miguel Diaz-Canel, sulla falsariga di Nicolás Maduro in Venezuela, potrebbero smorzare le proteste.


«Le manifestazioni dell’11 luglio a Cuba hanno fatto notizia. Qualcuno già ha definito l’evento “11J”, come se fosse uno spartiacque. Io preferisco aspettare a vedere cosa succede, prima di definirla una data storica». È cauta, la professoressa Antonella Mori. Oltre a insegnare Macroeconomia all’Università Bocconi, è la responsabile del Programma America latina all’Ispi di Milano. Panorama la ha intervistata per capire che cosa sta succedendo nell’isola della Revolución.

Le proteste in questi ultimi giorni sembrano essere un po’ scemate. Perché?

«A Cuba le proteste su piccola scala sono periodiche. Cos’è successo di diverso dal solito questa volta? Sono scoppiate manifestazioni in zone in cui in genere c’era un grosso supporto per la rivoluzione. E dopo poco si sono allargate anche in altre città. Però bisogna tenere conto che da un po’ di tempo l’uso dei social media si è diffuso anche a Cuba e che quindi il coordinamento delle proteste è diventato più semplice. Inoltre non è detto che i dimostranti abbiano ovunque la stessa motivazione».

In che senso?

«Nella zona in cui si sono verificate le prime dimostrazioni sembra che la causa scatenante fosse legata alla diffusione del Covid. A Cuba i contagi finora sono stati pochissimi, ma stanno aumentando e si registrano in una zona in cui vanno i turisti, in particolare turisti russi. Quindi, da una parte c’è stato un aumento forte dei contagi, con un Paese che comunque ha una buona sanità, ma pur sempre limitata se arriva una pandemia. Pensiamo alla nostra sanità, che era considerata un’eccellenza al livello mondiale e abbiamo visto cos’è successo».

E dall’altra parte?

«Le grosse carenze di beni primari. Perché Cuba è un Paese che produce poco. E questo è uno dei più importanti fallimenti economici del Paese, che non è riuscito a stimolare una produzione agricola sufficiente, non ha stimolato altre produzioni e ha una produttività molto bassa… È quindi un Paese che importa tantissimo. Per importare, però, ha bisogno di dollari e le entrate di dollari sono crollate con il crollo del turismo, legato naturalmente alla pandemia. Questo ha portato alle prime proteste, che si sono concentrate in zone rurali, non lontano dall’Avana, tradizionalmente considerate a favore della rivoluzione. Poi si sono allargate in altre zone, in cui è difficile capire la causa scatenante, se di tipo politico o economico».

Spesso poi i due fattori si intrecciano…

«Per me sì. Ma proprio perché c’è una componente della popolazione che non è contro il governo (secondo la Cbs a Cuba sono scese in piazza decine di migliaia di persone a favore del presidente, ndr), forse anche per questo motivo, oltre che per la repressione, le proteste si sono poi sgonfiate. È una situazione che potrebbe tornare alla normalità, come potrebbe tornare a esplodere. Però bisogna osservare che le manifestazioni pro-governative sono state sufficientemente numerose per rendere evidente che l’opposizione non riesce a portare in piazza la stragrande maggioranza della popolazione. Se i dimostranti pro-governativi fossero stati pochissimi e fossero stati tantissimi quelli anti-governativi, forse adesso a Cuba la gente sarebbe ancora in piazza. Interessante è il confronto con il Venezuela, dove nella primavera-estate del 2017 per mesi sono andati avanti a protestare contro Nicolás Maduro e poi lentamente le proteste sono scemate».

Come mai?

«Da un certo punto di vista a causa della strategia di Maduro, che ha detto: “Volete protestare? Protestate”. E non è passato alla repressione dura. È vero che ci sono stati parecchi morti, ma non possiamo dimenticare che quando ci sono mezzo milione di persone in piazza che protestano può purtroppo succedere che ci siano delle vittime. Le dimensioni delle proteste, però, avrebbero potuto portare a molti più morti. E questa, una repressione non troppo dura, potrebbe essere anche la strategia di Cuba».

Sarebbe una strategia intelligente…

«Esatto: sarebbe intelligente. In un certo senso, anche a Cuba le prime mosse sono andate in questa direzione. Il presidente Miguel Díaz-Canel ai manifestanti ha detto: “Capisco la vostra pena per la crisi economica”. E ha tolto alcuni dazi sulle importazioni».

Ha fatto qualche concessione, insomma.

«Proprio così. E questo fa pensare che la strategia cubana possa essere più stile Venezuela. Quindi niente mano dura e repressione, che peraltro farebbe poi irrigidire anche la comunità internazionale, a parte gli Stati Uniti. L’Unione europea è ancora aperta la dialogo. E, se non c’è repressione, è pronta ad andare in soccorso con un po’ di soldi e un po’ di aiuti alimentari. Così altri Paesi dell’America Latina. Certo, se invece Díaz-Canel dovesse passare alla repressione con morti e detenzioni di massa, le cose cambierebbero molto. Per questo io mi aspetto una strategia alla Maduro: “Lasciamoli protestare entro certi limiti, manteniamo il più possibile la situazione e andiamo avanti”».

In termini di incarcerazioni, la Reuters citando Cubalex, un’ong che si occupa di diritti umani, parla di 450 persone finite in prigione, alcune delle quali già rilasciate. Risulta anche a lei?

«Anch’io ho letto numeri del genere. Il punto è che sono tutte voci esterne, voci di esuli, che naturalmente hanno la possibilità di parlare di più di chi è sul campo. Il numero corretto, però, non lo sappiamo. Sui morti, forse, ci può essere un po’ più di trasparenza: è stato lo stesso governo ad ammettere che c’è stato un morto».

Quindi lei non prevede un cambiamento imminente a Cuba?

«Un vero cambiamento dal punto di vista politico ci potrà essere solo se L’Avana autorizzerà vere elezioni democratiche, ma secondo me bisogna attendere ancora. Sarebbe bello poter vedere a Cuba elezioni elezioni democratiche, con il partito rivoluzionario e l’opposizione che si confrontano, in modo da capire che cosa vogliono davvero i cubani».

E il risultato non sarebbe scontato, vero?

«No, no, nient’affatto. Potrebbe anche vincere il partito della rivoluzione. Però ci sarebbe un Parlamento con un partito di maggioranza e uno di minoranza, in una logica da Paese democratico, con un’eventuale alternanza. Questo non succede a Cuba come non succede in altri Paesi. Tutti attaccano Cuba e si dimenticano che la Cina, con cui fanno affari, è la stessa cosa».

Perché lo dimenticano?

«Perché la Cina per 30 anni ha avuto un tasso di crescita del 10% e la gente dice: “Anche se non mi danno la libertà politica, sto sempre meglio di prima”. Cuba, invece, è indietro da tutti i punti di vista. Non dobbiamo poi dimenticare che i 60 anni di embargo hanno comunque ha pesato. Essendo così vicini, gli Stati Uniti, la principale economia al mondo, avrebbero potuto trascinare anche l’economia cubana, come è avvenuto per Messico, Panama, Costarica…».

Ma è vero che l’arretratezza economica cubana è da attribuire tutta all’embargo?

«In parte sì e in parte no. L’embargo ha sicuramente soffocato l’economia, ma Cuba avrebbe potuto fare degli sforzi per cercare rapporti economici con altre aree, ma soprattutto sviluppare di più l’economia interna. Diciamo che L’Avana ha usato molto a suo favore la storia della lotta antimperialista».

Resta stupefacente che, dopo 62 anni, il regime sia ancora in piedi.

«Alla fine, evidentemente, una percentuale della popolazione non vuole farlo cadere. O, per lo meno, la maggioranza valuta che i costi di un’eventuale controrivoluzione violenta, in termini di morti, instabilità e incertezze, possano essere più pesanti dei benefici. Preferisce che si esaurisca da solo e che si passi a una democrazia per vie democratiche».

Per il momento, che cosa succederà?

«Bisogna vedere se Diaz-Canel sarà in grado di proseguire con le piccole aperture per placare gli animi dei dimostranti. E poi occorre capire se arriveranno degli aiuti. Da un certo punto di vista, queste manifestazioni sono servite a mostrare che la situazione economica è molto dura. Gli oppositori fuori da Cuba sono contrari a qualsiasi tipo di aiuto perché lo ritengono un sostegno al regime. Dall’altro punto di vista, però, sarebbe anche un sostegno alla popolazione, che in questo momento si trova in forte difficoltà».

Poi c’è Washington.

«Un fattore che ha contribuito a peggiorare la situazione è che Donald Trump non solo è tornato indietro rispetto alle aperture di Barack Obama, ma ha anche irrigidito alcune posizioni della politica pre-Obama. Una delle sue misure è stato limitare le rimesse degli emigranti, fondamentali per Cuba da sempre ma adesso che mancano i dollari del turismo irrinunciabili. Non bastasse, a gennaio, una settimana prima di lasciare la Casa Bianca, Trump ha messo Cuba nella lista dei Paesi amici del terrorismo, assieme a Corea del Nord, Iran e Siria. Una mossa terribile, perché implica che anche società non americane abbiano difficoltà ad avere rapporti economici con Cuba».

Joe Biden però ha un approccio diverso.

«Certo. La sua difficoltà però è di politica interna. Non vuole crearsi un problema internamente, rischiando di perdere la Florida, facendo mosse troppo a favore di Cuba. Biden si trova intrappolato e sta prendendo tempo. Trump l’ha fatto apposta. D’altro canto, Cuba è sempre stata un suo chiodo fisso. Quando per esempio i medici cubani sono venuti in Italia ad aiutarci per il Covid, l’allora presidente aveva fatto sapere a Roma che non era per niente contento».

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