Per comprendere davvero cosa significhi oggi evocare la ricostruzione di Gaza bisogna tornare a ciò che, per lungo tempo, è rimasto fuori dallo sguardo pubblico. I documenti riservati del Meccanismo di Sicurezza di Hamas – raccolti e divulgati dal centro di ricerca israeliano Ngo Monitor – delineano un ingranaggio che, passo dopo passo, ha assorbito l’intero settore dell’assistenza internazionale. Ciò che negli anni era nato come un ecosistema di attori indipendenti, locali e stranieri, in parte sostenuti dall’Unione europea, è stato gradualmente rimodellato fino a funzionare come un’estensione dell’architettura politica, ideologica e militare del movimento jihadista.
La presenza di ong internazionali – dalle britanniche Map-Uk e Human Appeal alle statunitensi Mercy Corps, Anera e Catholic Relief Services, fino a organizzazioni di enorme peso come Oxfam, Save the Children, International Medical Corps, Norwegian Refugee Council, Handicap International, Médecins du Monde, la sezione belga di Médecins Sans Frontières e Action Against Hunger, oltre a realtà europee quali l’italiana Cesvi, WeWorld-Gvc, Educaid Italia, DanChurchAid, Terre des Hommes Svizzera, Iocc e Sos Children’s Villages – non ha mai rappresentato un reale spazio di autonomia. Ogni intervento, piccolo o grande, veniva filtrato dal Ministero dell’Interno e della Sicurezza nazionale di Hamas, che decideva se permettere, sospendere o riplasmare i progetti alla luce dei propri obiettivi strategici.
Il controllo, peraltro, non si fermava ai permessi ufficiali. Hamas aveva infatti imposto a tutte queste realtà la figura dei cosiddetti “garanti”: responsabili locali collocati ai vertici operativi delle sedi di Gaza. Molti erano militanti del movimento; alcuni avevano legami diretti con le Brigate al-Qassam. I rapporti trapelati segnalano casi che coinvolgevano referenti di Map-Uk, Human Appeal, International Medical Corps, Norwegian Refugee Council e persino un esponente della sede locale di Cesvi, beneficiaria di fondi europei, il quale ricopriva ruoli religiosi e amministrativi interni alla struttura di potere. Queste figure consentivano al ministero di infiltrarsi nei processi interni delle ong, monitorandone le riunioni, l’uso delle risorse e le dinamiche di staff, trasformandole di fatto in canali informativi utili all’organizzazione islamista.
Le schede personali redatte su ciascun garante sono impressionanti: note su pratiche religiose, legami familiari e sentimentali, stati finanziari, precedenti giudiziari, attività online e perfino abitudini quotidiane. Un apparato di sorveglianza minuzioso, costruito per assicurare a Hamas un flusso costante di informazioni, pressione e ricatto. L’ingerenza non risparmiava nemmeno i progetti tecnici: per esempio, il programma idrico finanziato dall’Ue e implementato da Oxfam nella zona di al-Fukhari veniva usato dal movimento per mantenere una presenza stabile in aree cruciali dal punto di vista militare. In altre situazioni Hamas chiedeva ai partner locali – come accaduto con la società Rai-Consult – di orientare gli interventi in funzione delle necessità della “resistenza”.
Le organizzazioni che tentavano di difendere una qualche forma di indipendenza venivano immediatamente segnalate come “ostili”. Save the Children, per esempio, fu sottoposta a limiti operativi e controlli invasivi. International Medical Corps vide gli uffici chiusi per mesi, fino alla firma obbligata di una “revisione finanziaria” imposta da Hamas come condizione per poter riaprire. Nemmeno la gestione dei dati sfuggiva alla manipolazione. I moduli destinati a identificare beneficiari o a valutare l’impatto dei programmi venivano modificati eliminando ogni voce che potesse esporre l’ubicazione di tunnel sotterranei, infrastrutture militari, depositi di armi o feriti inquadrati nelle milizie. Lo stesso personale internazionale era soggetto a un processo di approvazione preventiva: veniva passato al setaccio per escludere chiunque potesse rappresentare un rischio per la segretezza dell’apparato armato.
Un episodio apparentemente banale racconta bene la dinamica dominante. Durante una visita sul campo, un beneficiario chiese a un team del Norwegian Refugee Council se il cedimento del pavimento della sua abitazione potesse essere collegato alla costruzione di un tunnel. Nessuno rispose. La delegazione preferì tacere, consapevole che anche una semplice conferma avrebbe potuto metterla in conflitto con Hamas. Quel silenzio è il simbolo di un’intera stagione umanitaria in cui la presunta neutralità è diventata un concetto formale, svuotato di sostanza. Agenzie Onu, Ong internazionali e istituzioni finanziate dai governi occidentali hanno finito per lavorare dentro un sistema di condizionamenti che ha trasformato l’aiuto in una leva politica al servizio dell’organizzazione che controlla la Striscia. E tutto questo ha riguardato un flusso economico colossale. Negli ultimi vent’anni, Gaza ha ricevuto circa 45 miliardi di dollari in fondi e programmi di assistenza, una porzione rilevante dei quali proveniente dall’Europa. Una montagna di risorse che, nelle intenzioni dei donatori, avrebbe dovuto sostenere sviluppo, welfare e ripresa, ma che nella realtà è stata intercettata e piegata in larga parte alle priorità militari e di potere di Hamas.
