Giuseppe Conte sta tentando di prolungare i poteri straordinari e di mantenere l’esposizione mediatica di cui ha goduto durante il lockdown. Gli Stati generali sono di fatto una presidenzializzazione del governo, in cui Palazzo Chigi cerca non solo di centralizzare le decisione politiche ma anche di emanciparsi il più possibile dall’influenza dei partiti che compongono la maggioranza. La precarietà della maggioranza assicura immobilismo, ma anche una grande potenziale volubilità. Un modo per variare le geometrie parlamentari si trova sempre quando v’è da fare una manovra d’emergenza in uno scenario economico molto fosco. A quel punto in autunno vi sarebbe una sola certezza: il premier, divenuto indispensabile a questa maggioranza, non sopravvivrebbe con una diversa.
Giuseppe Conte sta tentando di prolungare i poteri straordinari e di mantenere l’esposizione mediatica di cui ha goduto durante il lockdown. Gli Stati generali sono di fatto una presidenzializzazione del governo, in cui Palazzo Chigi cerca non solo di centralizzare le decisione politiche ma anche di emanciparsi il più possibile dall’influenza dei partiti che compongono la maggioranza. Non è un caso che quest’azione abbia avuto impulso dalla Presidenza del Consiglio, e non dal Parlamento, e si sia rivolta alle parti sociali più che alle forze politiche. Nessuno si aspetta grandi riforme dagli Stati generali convocati da un esecutivo nato più per vivacchiare che per cambiare, ma con queste mosse Conte mostra di essersi abituato presto alla gestione del potere. Il premier utilizza uno schema che già si è visto con task force e comitati tecnici: dar voce a tutti gli interessi in gioco, diluire le responsabilità del governo con quelle di esperti e rappresentati della società civile, silenziare i partiti e la polemica politica, amministrare più che governare. E’ il metodo Conte, che permette di rischiare poco sia sul piano delle politiche, senza mai prendere decisioni drastiche, che su quello della politica, scaricando le responsabilità sui tecnici e sulle parti sociali. In questo modo Palazzo Chigi si assicura il superamento dell’estate, ma senza cambiare passo. Nonostante queste debolezze però, il governo sopravvive perché un’architettura ancora solida lo sorregge: il Quirinale ha ancora un atteggiamento benevolo e protettivo verso il Presidente del Consiglio; i maggiorenti del Pd, sia ex Ds come D’Alema e Bettini sia ex margheritini come Gentiloni e Franceschini che indipendenti come il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli, lo sostengono per mancanza di alternative; il Movimento 5 stelle è paralizzato dalla paura del voto e dal vuoto di leadership; per i partner europei Conte è funzionale: diligente amministratore di un’Italia sempre più debole, incapace di riformare il proprio Stato, e privo della forza politica per imbastire bracci di ferro nelle trattative europee o di contestare la linea franco-tedesca. Questo governo garantisce un’Italia europeista e sufficientemente in declino per cui i partner europei possono fare buoni affari nell’acquisizione di aziende e società italiane.
Nicola Zingaretti, che ad agosto scorso si è piegato ad un governo che inizialmente non voleva fare, è il più facile dei potenziali dissidenti da tenere a bada. Non è leader da ribaltone e da campagna elettorale, occupa il Nazareno perché uomo mite e capace di garantire le varie correnti democratiche. Il patto di potere su cui fonda il Conte bis passa dalla progressiva neutralizzazione di Matteo Renzi e Luigi Di Maio, le anime più politiche e populiste del governo, oltre che dall’impedire le elezioni e la probabile vittoria del centrodestra. Renzi, ai ferri corti con il premier già a gennaio, è stato messo politicamente in quarantena con l’avvento del lockdown, complice anche il magro consenso di Italia viva. Di Maio è un leader dimissionario, con un partito sempre più diviso e terrorizzato dalle urne, che ha perso l’appoggio di Beppe Grillo e Casaleggio, i quali, seppur per motivi diversi, vogliono che i pentastellati restino al governo. Fino ad oggi, dunque, quest’intelaiatura politica ha funzionato bene, non esiste infatti un’alternativa a Giuseppe Conte all’interno di questa maggioranza. Una maggioranza che, secondo gli artefici del patto politico, deve restare in piedi fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Viene da chiedersi, però, quanto in prospettiva questo protagonismo del premier potrà essere tollerato da parti sociali e partiti. In questo contesto, gli Stati generali rischiano di essere fumosi, di produrre una valanga di micro-politiche senza un disegno complessivo e senza coinvolgere concretamente, sul piano decisionale, associazioni e sindacati. Al tempo stesso, le condizioni economiche e sociali potrebbero aggravarsi nei prossimi mesi: lo Stato italiano funziona male (basti vedere l’Inps con la cassa integrazione), i fondi europei arriveranno dilazionati negli anni, la disoccupazione è in rapida risalita, si avverte sempre di più la separazione tra chi è garantito e chi non lo è. Se il quadro dovesse deteriorarsi rapidamente, in autunno il posto di comando di Conte potrebbe non essere così saldo. La precarietà della maggioranza assicura immobilismo, ma anche una grande potenziale volubilità. La mancanza di alternative, in un sistema politico che tende a frazionarsi ed è sempre più in balia degli shock esterni, è spesso gemella del trasformismo. Un modo per variare le geometrie parlamentari si trova sempre quando v’è da fare una manovra d’emergenza in uno scenario economico molto fosco. A quel punto vi sarebbe una sola certezza: Giuseppe Conte, divenuto indispensabile a questa maggioranza, non sopravvivrebbe con una diversa.
